Non solo scafisti! Per colpire le organizzazioni criminali che lucrano sui migranti servono diritti
Sale a 80 il numero delle vittime recuperate nel tratto di mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Il naufragio a largo delle coste calabresi ha mostrato il volto più drammatico del fenomeno migratorio. In una realtà caratterizzata dalla disperazione delle condizioni di chi è costretto a partire e dalla crudeltà di una rete criminale che la sfrutta, ci si interroga su percorsi di impegno concreto per il contrasto all’illegalità e per l’accoglienza. Il decreto migranti varato dal consiglio dei ministri, arrivato all’esame in commissione affari costituzionali del senato, solleva dubbi che è necessario approfondire.
Dopo la strage di Cutro, il dibattito pubblico si è sviluppato attorno a due questioni fondamentali: la ricostruzione dei motivi per cui l’imbarcazione non sia stata soccorsa prima; l’atteggiamento distante dei rappresentanti del Governo, tanto nelle parole quanto nei gesti. A distanza di qualche giorno, un nuovo naufragio nel Mediterraneo ha riproposto gli stessi temi.
Di fronte a tragedie di queste dimensioni, è legittimo chiedersi cosa sia accaduto ed è normale aspettarsi atteggiamenti di pietà per i morti e vicinanza ai familiari.
Alla politica si chiede, in più, di fare i conti non solo con intenzioni od omissioni e neppure solo con le proprie coscienze, ma di assumersi delle responsabilità che attengono al governo del fenomeno delle migrazioni, con lucidità e prospettiva. La strage Cutro è un evento talmente drammatico che dovrebbe portare a una battuta d’arresto rispetto a ciò che si è sempre detto e fatto. Occorrerebbe fermarsi a riflettere sui fallimenti delle politiche degli ultimi venti anni e provare a prendere nuove strade.
I primi passi che sono stati compiuti dal Governo sono invece discutibili. Viene riproposta, ancora una volta come soluzione del fenomeno migratorio: la lotta agli scafisti. Una lotta già condotta da anni con l’introduzione di reati, con aumenti di pene e con un imponente dispiegamento di forze ma che, nonostante abbia portato in carcere un po’ di persone, è risultata inefficace nel fermare le partenze. Piuttosto che continuare sulla stessa strada, sarebbe bene chiedersi il perché del fallimento di questo ingente investimento di denaro e risorse.
La risposta in realtà è meno complicata di quanto sembri. Aumentare le pene per gli scafisti è una soluzione semplice a un problema complesso. Apparentemente non costa nulla e dà l’idea che si possa gestire il fenomeno migratorio, fermando le partenze, come se non esistessero le guerre, le dittature, le discriminazioni, i terremoti, la fame, le inondazioni che costringono le persone a un’alternativa secca: spostarsi per cercare di sopravvivere o morire.
È come se aumentare le pene non fosse un rischio calcolato da chi organizza il trasferimento via mare (o via terra) dei migranti, spesso scaricato sull’ultimo anello della catena, gli scafisti. Su questi, più visibili e su cui può abbattersi la scure della repressione penale, si concentra la riprovazione morale: vengono definiti trafficanti di esseri umani proprio per evidenziarne la brutalità, lo fa persino Papa Francesco.
Una questione tecnica e politica
Parlare di trafficanti è tuttavia scorretto dal punto di vista giuridico e induce a errori nell’interpretare la realtà. È una questione tecnica, ma che ha una rilevanza politica enorme.
Nella legislazione penale si parla di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: in inglese si utilizzerebbe il termine smuggling, perché trafficking è riservato a chi è coinvolto nella tratta di esseri umani già ridotti o allo scopo di riduzione in schiavitù (si pensi alla tratta di donne immesse nel mercato della prostituzione).
I trafficanti, dunque, se proprio vogliamo utilizzare questo termine, sono coloro che, mi si conceda qualche approssimazione, fanno parte di organizzazioni criminali dedite al trasferimento in Italia di persone ridotte o per ridurle a schiave, per sfruttarne il lavoro e i corpi; è questo il delitto di tratta di esseri umani, in cui violenza, minaccia e coercizione sono sempre implicate.
Diversamente, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare riguarda chi promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato o compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso. Il fatto di reato è più grave se il numero di persone trasportate è uguale o superiore a 5, se la persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o incolumità o a trattamento inumano o degradante, se gli autori avevano disponibilità di armi o se erano almeno in 3, ma alla base del reato di favoreggiamento non c’è, di per sé, alcuna minaccia o costrizione fisica.
Al contrario c’è la fornitura di un servizio illegale di trasporto a persone che vogliono spostarsi e non hanno altro modo per farlo. Pur di lasciarsi alle spalle la disperazione, sono disposte ad affidarsi a persone o a organizzazioni più o meno strutturate (a volte sia legali che illegali a seconda del Paese in cui operano) che, in funzione del rischio di essere scoperte, dell’incremento dei guadagni e dell’urgenza di chi parte, aumentano i costi del trasporto, rendono peggiori le condizioni del viaggio (per esempio obbligando a stare rinchiusi per giorni in spazi angusti prima di essere imbarcati o utilizzando gommoni o barche di fortuna) e trasferiscono i rischi sugli stessi trasportati (per esempio, facendo condurre a qualcuno di loro la barca).
Siamo in presenza di un mercato illegale che risponde a una domanda di trasporto e in cui l’offerta si modula in relazione a disponibilità, rischi, urgenze, reputazione e monopoli affermatisi sul campo.
Limiti e alternative
Detto in poche parole, tra il diritto di scappare da guerre, oppressioni, discriminazioni e il diritto di presentare una domanda di protezione internazionale c’è di mezzo la necessità di un viaggio che, in assenza di alternative legali, non può che alimentare un’offerta di trasporto illegale, perlomeno in alcune sue fasi. Pensare di impedire le partenze e addirittura di limitare le morti in mare puntando ancora sullo strumento penale è non più solo un’illusione, ma una colpevole mancata presa di coscienza del fallimento di questo approccio.
Un’altra strada è possibile, probabilmente impiegando meno soldi di quelli che finora sono stati utilizzati per sostenere l’umanamente insostenibile e nei fatti inefficace politica della protezione dei confini dall’ “invasione” degli immigrati poveri.
Per i migranti per ragioni economiche ben venga l’ampliamento delle possibilità di ingresso per motivi di lavoro, anche con accordi con i Paesi di origine (ma che sia effettivo e non barocco). Questo canale, però, non può riguardare in alcun modo chi è costretto a fuggire da un Paese che non avrebbe voluto lasciare se non per salvarsi la pelle e che non ha alternative che acquistare un servizio illegale di trasporto. Un servizio che, proprio perché svolto nell’ombra, si fa ancora più pericoloso.
Per i profughi ucraini, per esempio, in un batter d’occhio si sono costruite le condizioni per una migrazione regolare: perché l’Italia, insieme all’Europa, non lavora allo stesso modo per chi fugge da altri luoghi altrettanto martoriati?
Le morti di Cutro costringono a fare i conti con le illusioni e i fallimenti della Fortezza Europa e ad avere il coraggio di riprendere quel progetto di universalità dei diritti che è ancora scritto nelle nostre carte fondamentali ma che ci siamo abituati a non leggere più.
* Docente di criminologia all’Università degli Studi Milano-Bicocca, membro del comitato scientifico di Avviso Pubblico
Fonte: Avviso Pubblico
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