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Le “menti raffinatissime” dell’Addaura

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi

In questi ultimi giorni, proprio alla vigilia del diciottesimo anniversario della strage di Capaci, tornano d’attualità le vicende legate alla mancata strage dell’Addaura del giugno 1989. Il tentativo di uccidere Giovanni Falcone e due magistrati svizzeri con una carica esplosiva, piazzata nei pressi della villa al mare del giudice, venne sventato all’ultimo momento, grazie all’intervento di un soggetto esterno. Quel soggetto esterno ancora oggi non ha un nome e un cognome, ma fa riflettere la circostanza che, quando il 21 giugno del 1989, nei pressi dell’Addaura, venne dato l’allarme, anziché cercare di capire cosa realmente fosse successo, si preferì dare la caccia alle streghe. 

Furono in molti, senza provare alcuna vergogna, che rilanciarono addirittura l’ipotesi che fosse stato lo stesso Falcone ad organizzarsi un finto attentato, per rompere la solitudine nel quale era stato confinato a Palazzo di Giustizia. Si insinuava allora subdolamente che se Cosa Nostra avesse veramente deciso di uccidere qualcuno, non avrebbe certo potuto fallire e quindi, visto che l’attentato era stato sventato, non era stata la mafia a piazzare l’esplosivo. 
In quella calda estate palermitana, partì una campagna di delegittimazione del numero uno nella lotta al crimine organizzato che, tra i tanti risultati negativi, ebbe quello di convincere Falcone che forse era giunto il momento di trovare altre strade, che non passavano certo da Palermo, per dare continuità al suo impegno in prima linea contro le cosche. Forse maturò in quei giorni la decisione, che poi il magistrato prese, di accettare a distanza di poco più di un anno, un incarico di rilevanza al Ministero di Grazia e Giustizia su proposta del ministro Claudio Martelli. Falcone non fuggì da Palermo, come altri dissero, ma decise di andare a Roma per proseguire la sua battaglia contro Cosa Nostra, visto a che a Palermo non aveva possibilità di agire e, per la prima volta forse, non si fidava di pezzi importanti dello Stato. 
Deve fare, infatti, riflettere la circostanza che, nell’immediatezza del fallito attentato dell’Addaura, Falcone decise di rompere il tradizionale riserbo che, in altre occasioni, aveva caratterizzato i suoi rapporti con i mass media, per dichiarare alla stampa che “menti raffinatissime” erano all’opera in quel preciso momento. Le “menti raffinatissime” alle quali lo stesso giudice attribuiva una qualche responsabilità nella vicenda. Per anni ci si è chiesti la ragione di questa allusione, senza mai trovare veramente una risposta. A chi voleva parlare Falcone? 
Oggi la notizia dell’iscrizione da parte della Procura della Repubblica di Caltanissetta di cinque soggetti legati alle famiglie mafiose dei Madonia e dei Galatolo rilancia nuove ipotesi investigative, prospettando, addirittura, una clamorosa riapertura del processo. La novità più importante però è lo scenario legato proprio al ruolo di queste “menti raffinatissime”, a partire dalle informazioni offerte dai nuovi collaboratori di giustizia. Secondo questi ultimi, sul gommone al largo dell’Addaura, si trovavano Nino Agostino e Emanuele Piazza, il primo agente della Polizia di Stato e il secondo collaboratore del SISDE. I servizi ammisero solo tempo dopo la presenza di Piazza nei propri ruoli. Il giovane venne fatto sparire nel 1990: un caso di “lupara bianca” che ricevette verità e giustizia solo molti anni dopo, grazie alla testimonianza di alcuni uomini d’onore che raccontarono l’uccisione per strangolamento di Piazza. Agostino, invece, venne ucciso in compagnia della moglie Ida Castellucci, nell’agosto del 1989, davanti agli occhi del padre di Nino, Vincenzo. 
Di Agostino e Piazza per molto tempo si è detto e scritto di tutto e il contrario di tutto. Dall’inverosimile calunnia secondo la quale i due fossero incalliti “femminari” impegnati in relazioni con donne sposate con pericolosi uomini d’onore – un classico nella delegittimazione delle vittime delle mafie – ad altre ricostruzioni estemporanee e campate per aria. Si paventò addirittura che fossero stati loro, arrivando su un gommone via mare, a piazzare il borsone da sub, contenente l’esplosivo, tra gli scogli dell’Addaura. Oggi invece, se fosse confermata la nuova ipotesi al vaglio degli inquirenti, si ribalterebbe completamente il quadro. 
Innanzitutto, a questo punto, se i due erano sul gommone al largo, sarebbe stata la loro presenza a mettere in allarme gli attentatori e a far fallire la strage. E Falcone partecipando ai funerali di Agostino, avrebbe così testimoniato la sua riconoscenza all’agente ucciso. Quindi risulterebbe più logico che a piazzare l’esplosivo avesse provveduto qualcuno via terra e non via mare, come si è invece sempre sostenuto. Se così fosse, questa circostanza chiamerebbe in causa il servizio di vigilanza disposto intorno alla villa. Potrebbe essersi verificata, cioè, una falla clamorosa, seppure accidentale, nella tutela del magistrato più a rischio d’Italia. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, vi sarebbe stato qualcuno pronto a tradire. In tal caso prenderebbe corpo l’ipotesi di un commando misto, costituito da uomini di Cosa Nostra e da esponenti delle forze dell’ordine o, più verosimilmente stando alla storia oscura del nostro Paese, dei servizi segreti. Erano queste le “menti raffinatissime” cui alludeva Falcone? 
I servizi segreti tornano poi alla ribalta, quando qualcuno di loro si presentò a casa di Nino Agostino per chiedere dell’agente, che in quel momento si trovava in viaggio di nozze. Il padre Vincenzo, che dal giorno dell’uccisione del figlio e della nuora non si taglia barba e capelli in segno di protesta, ricorda tra questi un uomo con la faccia butterata. Lo stesso segno distintivo che Massimo Ciancimino indica essere attribuibile ad un uomo dei servizi, solito a incontrare il padre, quel Don Vito, esperto di cose di mafia. Più che un’ombra sui servizi, qui sembra che ci troviamo di fronte a numerosi indizi che portano necessariamente a chiedere, ancora una volta, che siano chiariti ruoli e responsabilità. 
Ruoli e responsabilità che, già in un clamoroso caso, sono stati oggetto di approfondimento processuale e hanno portato anche ad una condanna in via definitiva a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Stiamo parlando di Bruno Contrada, prima alla Polizia di Stato e poi ai vertici proprio del SISDE. Dopo lunghi anni e diversi processi, ci auguriamo tutti che sia giunto finalmente il momento della verità su quanto avvenne tra gli scogli dell’Addaura.

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