Cosa ci resta. Sragionare di Kiev e Mosca? No grazie, io non mollo i pappafichi
Sempre della splendida serie “E chi se ne frega”, che trionfò su Cuore di Michele Serra più di trent’anni fa: signore & signori, ho deciso che devo resistere.
Il che, appunto, interesserà i miei venticinque aficionados se va bene. Però vorrei provare a diffondere un piccolo germe di antidisfattismo e di fiducia nelle nostre possibilità oltre quei venticinque. Sperare è possibile, vi assicuro.
Ma per riuscirci non tuffatevi nelle infinite logomachie sui temi più grandi, che giustamente sono quelli che più ci centrifugano il cuore. L’Ucraina, Gaza, la Russia e Trumpolone l’Arancione. Perché se solo vi ci tuffate avrete davvero l’idea che non si possa fare niente.
La gente parla, parla in libertà, non segue i sacri precetti che ci impartiva la professoressa Fantoni (già ve l’ho raccontata la storiella delle 11p –“prima pensa poi parla, perché parola poco pensata può portare pregiudizio”-, ovvero il più grande insegnamento ricevuto nelle ore di matematica alle scuole medie).
E quando la sentite strologare capite che il mondo non poteva che finire così. Con persone che pensano che l’America sia ancora quella dei ragazzi che vennero a morire per la nostra libertà o la terra della libertà; con altre persone (o le stesse) che pensano ancora che la Russia sia quella che immolò più di un milione di vittime per fermare Hitler; che la Cina sia ancora con Tito alla testa dei paesi non allineati e non il nuovo e vincente imperialismo; o che Israele sia la patria di un popolo in insanabile conflitto con la persecuzione razziale nei secoli dei secoli.
A questi livelli, amici cari, non discuto. Voglio la mia cella benedettina (copyright di Daniela Padoan), da cui rifare un mondo senza disumane prepotenze, voglio per ora rifugiarmi nella bellezza incontaminata della musica, dell’arte e della natura; oltre che dei bimbi, e ci mancherebbe.
Così l’altra sera sono andato a un concerto all’auditorium di Radio Popolare. C’era un cantautore di cui non vi dico niente, perché ve ne ho già parlato e non voglio fare pubblicità. Erano in quattro a suonare (però il numero cambia sempre). E la loro musica spargeva valori nell’aria. Forti, dolci, che ti entravano dentro come solo i sogni. I diritti della donna, l’antimafia, la memoria. Le parole cesellate anche quando varcavano il confine segreto del turpiloquio. Canzoni piene di ritmo e di storia.
Finché a un certo punto mi sono reso conto che l’unica donna del gruppo, una violoncellista sublime -Daniela si chiama-, sognava più di me. Guardava verso il centro del palco, dove suonava e parlava o urlava in musica il cantautore. Gli occhi languidi e liquidi le brillavano come pozze di mare scuro, proprio come in tanti ci siamo immaginati il “mare nero” di Battisti. Rispondeva con il viso alle parole, alle armonie. Anticipava con il moto dei lineamenti l’arrivo delle strofe più appassionate o scatenate. I ricci le si inclinavano sulla fronte mentre si abbandonava al suo strumento, poggiandovi la guancia sinistra quasi fosse un cuscino di seta.
Anche gli altri due del gruppo -Paolo e Omar- sembravano fondersi in un unico elemento negli attimi in cui la storia e il cosmo felicemente si incontravano, ricordando -ed è stato un attimo di altissima commozione- il comandante partigiano e la sua innamorata che non volevano l’arrivo dell’alba che li avrebbe divisi.
Ecco, amici miei. Datemi queste cose, datemi il mio nipotino che senza nulla sapere chiede al padre se mai un aereo o un elicottero è atterrato in mezzo a uno stadio, e se l’ha fatto durante la partita. Datemi queste cose sublimi e ritroverò il gusto di battermi, il senso della mia parola.
Non voglio fuggire, voglio restare senza che le mie facoltà mentali mollino i pappafichi. Parola mia che, guardandosi un po’ in giro, è un grande traguardo (be’ alla fine quel nome , solo il nome, lo farò; Alessandro. Dice ch’era un bell’uomo e veniva…”).
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 07/04/2025
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