Fiat Punto 1.3 Multijet
Cosa si può mettere nel bagagliaio di una utilitaria? Le borse della spesa, quelle cariche di gioia per andare in vacanza. Oppure il passeggino chiuso di un figlio che, appena arrivato, si prende tutto lo spazio.
Io ho incontrato chi dentro ci ha messo l’orgoglio di una vita che si costruisce.
La famiglia di Adriano è arrivata in Italia un pezzo per volta. Ha iniziato il fratello, accompagnato dalla più giovane delle due sorelle; poi è toccato al papà con l’altra figlia. Sarà solo all’inizio del 2020, poco prima che la pandemia ci costringesse in casa, che si sono ritrovati tutti nel nostro Paese.
Adriano è il più piccolo. È magro, con i capelli scuri e gli occhi sfuggenti. Il fratello l’ha sempre sognata, l’Italia. Lui, invece, avrebbe preferito rimanere nella sua Lezha, dove tutto è familiare: le strade, il cibo, i suoni.
Certo, rispetto a prima ha entrambi i genitori vicini – in passato il padre lo vedeva solo nei fine settimana perché lavorava con la ditta in Montenegro. Ma Roma non è casa e ogni mattina la strada per la scuola diventa un nuovo viaggio. Fa la terza media, Adriano, ed è circondato da compagni che non conosce e non capisce. Prova a frequentare un corso di italiano il pomeriggio, ma lascia quasi subito. Il tempo libero è meglio spenderlo con i coetanei albanesi che vivono nel quartiere. E pazienza se lontano da loro il limite della lingua lo confina al silenzio.
Adriano guarda. Osserva tutto, tutti, e i pensieri se li tiene per sé. In questi cinque anni trascorsi qui ha imparato a sorridere e finalmente l’italiano non è più così ostico. “Eh, prof, lo stage in officina! Lì dovevo parlare pure con i clienti…”.
Eccola, la strada di Adriano. Eccolo il vero viaggio. Il primo anno è stato un disastro: si nascondeva all’ultimo banco e passava il tempo a fare gli aerei di carta. “Avion!”, lo rimproveravo scherzando e almeno in quel modo riuscivo a strappargli un sorriso. Adesso, invece, è alle soglie della qualifica professionale ed è tra i migliori meccanici che la sua classe sia riuscita a sfornare.
Quando gli ho chiesto quale sarebbe stato l’argomento centrale della sua tesina mi ha risposto: “Fiat Punto Multijet”. Credevo mi stesse prendendo in giro, visto che a scuola si dice: “Se vedi Mercedesi sicuro che è albanesi”. Oppure, mi son detta, qualcuno gliela avrà passata di sottobanco.
E invece no. “Prof, è la mia macchina – precisa. Cioè, è la macchina di mio padre. La prima che ci siamo comprati qui in Italia e ora la uso io. Veramente la devo pure riparare”.
Un’utilitaria, diciannove anni. Nessun macchinone con cui arrivare nel piazzale dell’istituto sgommando. Nessuna necessità di ostentare più di quello che si è e che si ha.
Ho guardato questo ragazzo, ho cercato quegli occhi per una volta meno sfuggenti, e ho sorriso senza nemmeno accorgermene. Può sembrare esagerato scegliere questa storia per dire che siamo davanti non soltanto al riscatto di un adolescente, ma al riscatto di un sistema scolastico – quello della formazione professionale, e della formazione professionale nella periferia di Roma – che spesso mostra più falle che altro.
Ma in quanti avrebbero scommesso su di lui? In quanti lo avrebbero riammesso dopo il primo anno? Non sono domande retoriche: è l’esperienza di questi anni di insegnamento. Il razzismo esiste, così come esistono i pregiudizi. I ragazzi vengono troppo spesso etichettati e si fatica a farli uscire dagli stereotipi. Questi, però, sono i fallimenti degli adulti, non dei ragazzi. Siamo noi adulti che, non di rado, fatichiamo ad andare più in là del nostro naso.
Non so dove la vita porterà Adriano. Però so che quando a giugno uscirà dall’istituto al volante della Punto, avrà con sé una consapevolezza nuova. Se ne andrà sapendo di poter imparare, sapendo di riuscire e di valere più di quello che gli altri – e forse anche lui stesso – pensavano che valesse.
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