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Separazione delle carriere, Nordio parli chiaro

Gian Carlo Caselli, Vittorio Barosio il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica

L’esito della mozione di sfiducia presentata contro il Guardasigilli Nordio era scontato, visti i numeri in Aula degli opposti schieramenti. Nondimeno il ministro doveva essere piuttosto preoccupato, perché all’esito dei lavori si è lasciato andare a considerazioni che avrebbe fatto molto meglio a tralasciare.

In particolare ha pronunciato, con tono perentorio, parole come: «Noi non vacilleremo e non arretreremo. Voi fate il vostro peggio che noi faremo il nostro meglio» (non è dato sapere se queste altisonanti parole fossero accompagnate da una postura tipo mascella indurita e petto in fuori).

Nordio si riferiva esplicitamente alla riforma della separazione delle carriere fra Pubblici ministeri e Giudici, unica freccia rimasta – sembra – nell’arco del governo dopo l’accantonamento del Premierato e dell’Autonomia differenziata.

Ancora una volta, Nordio ha presentato la separazione delle carriere come una vera e propria riforma della giustizia. Ben sapendo che le cose non stanno così, perché se anche passasse la separazione delle carriere, le attuali difficoltà della giustizia resterebbero tali e quali, a dispetto delle richieste e degli interessi dei cittadini tutti.

Nordio dovrebbe poi smetterla di negare pervicacemente, un giorno sì e l’altro anche, che il vero scopo ultimo della separazione delle carriere risponde, in realtà, all’obiettivo di togliere ai pubblici ministeri la loro indipendenza e di sottometterli al potere esecutivo (come avviene in tutti i paesi in cui è stata attuata questa separazione).

Ora invece, per sfuggire a questa realtà, egli afferma di subire attacchi di malafede. Si lancia persino contro la Corte dell’Aia, che sta indagando sul caso Almasri e quindi sul suo comportamento in quell’occasione, affermando che la Corte «va messa a posto». E giunge addirittura a stabilire un’analogia (per la verità ardita) tra lui stesso e coloro che erano vittime della seicentesca Inquisizione spagnola.

A questo punto, facciamo un passo indietro: al 1982. Viene sequestrata una valigetta con dentro il “Piano di rinascita democratica P2” redatto da Licio Gelli, gran maestro appunto della loggia massonica P2.

In questo piano, lungo e dettagliato, è inserito “l’obiettivo a medio e lungo termine” di “separare le carriere requirente e giudicante”. E fra l’altro ci si pone apertamente lo scopo di stabilire con la corrente più moderata della magistratura “un accordo sul piano morale e programmatico” per “elaborare un’intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento”.

Il che vuol dire, in parole semplici, voler comprare la magistratura cominciando da una parte di essa.

Poi viene Silvio Berlusconi, con trentasei procedimenti penali a suo carico, otto dei quali conclusi soltanto con la prescrizione, due per amnistia ed uno con una condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale.

Berlusconi detestava i pubblici ministeri perché lo avevano inquisito in tutti quei procedimenti. Egli voleva la separazione delle carriere per punirli e per far sì che essi in futuro non potessero più fare liberamente il loro mestiere e fossero invece tenuti a indagare o non indagare a seconda che si trattasse di persone sgradite o gradite al potere esecutivo.

E infatti il minisro Tajani, quando oggi si batte anche lui per la separazione delle carriere, lo fa ricordando sempre (come per adempiere a un voto di fedeltà) che si tratta di un desiderio del suo ex capo.

 Allora abbiamo una domanda.

È a questi precedenti che il nostro ministro vuole rifarsi?

A queste persone, il cui interesse principale non era certo quello del Paese?

Se è così abbia la bontà di farcelo sapere. Trasparentemente. Senza giocare con il significato delle parole e senza travisare la realtà.

Fonte: La Stampa

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