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Renata Fonte vive. Oltre la morte, la sua eredità

Fabiana Pacella il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Puglia

Scegliere la verità, nei giorni travagliati di Renata come oggi, equivale a caricarsi una croce, una lotta quotidiana su una strada irta di incomprensioni e perdite, vestire la corazza bucherellata dei divisivi, e creare conflitti perché non si è disposti a sacrificare sull’altare del compromesso valori imprescindibili.

Ma cosa resta, davvero, della fierezza di Renata Fonte, a 41 anni esatti dal suo assassinio?

Oltre un volto sui murales e foto che sbiadiscono, un fiore di ibiscus e vie e piazze e fiumi di parole scritte e molte di più dette e volate veloci. Come veloce è uno sparo. Che cancella una vita.

Oltre, la vita e la materia, c’è lo sguardo di quella giovane assessora di Nardò (Le), mortammazzata sotto casa, che resiste. Indagatore, inquisitore, un chiodo che appende al muro le coscienze di ogni tempo. Implacabile.

C’è nel vento il sibilo delle battaglie dei giusti, come Renata, come le altre vittime di mafia, che non muore come muore e deperisce un corpo, ma resta arma.

A sostegno di quanti in quelle battaglie credono e desiderano condividerle o continuarle e a demolizione, lenta prolungata, infinita, di coloro che hanno scelto la sponda opposta e limacciosa del male. E sono tanti.

Quante volte è stata uccisa, dal 31 marzo ’84 ad oggi, la leader del Partito Repubblicano Italiano che si oppose granitica a ogni forma di speculazione e lottizzazione abusiva sulla costa neretina?

Prima di quegli spari, dall’isolamento. Subito dopo, dall’omertà. Poi dal consenso sociale alla cultura mafiosa, a causa del quale è stato necessario lottare fino al 2002 prima che la commissione del dipartimento affari civili del ministero dell’Interno la riconoscesse prima vittima di mafia in Puglia.

E ancora oggi, dai tentativi sghembi di mistificazione, da letture e riletture altre della vicenda – a prescindere dalla conoscenza, doverosa, degli atti processuali – quasi come se quel timbro “vittima di mafia” fosse un gallone e non invece un vulnus senza fine alle figlie di Renata Fonte, ai suoi affetti e alla parte sana di una società civile che nella barbarie di quel delitto non si è mai riconosciuta.

È nostro dovere, dunque, essere spine nel fianco degli animi corrotti, mostrare un’alterità possibile come alternativa al male.

Questa terra ha maturato un debito, verso Renata. Senza fine.

E la presa in carico dei debiti si chiama impegno. Reale, concreto. Oltre i palchi, le frasi fatte, i coni di luce da rendita. Perché sì, è più facile piangere i morti, strappando un applauso, che tutelare i vivi. E chissà quanti di coloro cui oggi trema la voce parlando di quella donna, ieri l’avrebbero difesa realmente, senza voltarsi dall’altra parte.

Perché ci sono valori, e ahinoi disvalori, che resistono al tempo.

L’impegno reale è silenzioso, faticoso, va nutrito giorno per giorno di contenuti. E i contenuti sono i fatti.

La concretezza costante, quotidiana, senza sosta, di tutti e di ognuno. A luci spente, non a favore di camera né ad altezza di palco ma per strada tra gli altri e nel chiuso delle nostre stanze, davanti a uno specchio. Indistintamente.

La verità vera, serve. Anche quando tocca noi, i nostri abissi e ci mette spalle al muro.

Renata Fonte voleva una terra libera. E non c’è terra libera senza uomini liberi.

Camminare a testa alta, con l’elmetto della fiducia e della speranza, le armi della verità e della giustizia sul campo minato dal male, e disinnescare gli ordigni che minano la tenuta stabile della società civile.

Questa è la pesante eredità consegnata da Renata Fonte e dalle vittime di mafia. Vive, oltre la morte.

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