L’associazione compie 30 anni: “Boss e imprese senza scrupoli ora collaborano. La legalità non resti solo una parola, troppe vittime aspettano ancora giustizia”.
Ricorda “quell’ondata di ribellione morale e fermento civile” partita dalla Sicilia ferita e sconvolta dalle stragi del 1992, da cui tutto – si può dire – sia nato. E nel trentesimo anniversario della rete “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” nata a Roma il 25 marzo del 2025, don Luigi Ciotti, fondatore e presidente dell’associazione, traccia le sfide per il futuro.
Trent’anni di Libera: abbastanza per fare qualche bilancio.
“Trent’anni di una rete plurale, nata per rendere più incisivo l’impegno delle realtà che la compongono. Trent’anni di tappe importanti, a cominciare dalla legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie approvata grazie anche alla nostra mobilitazione: un milione di firme raccolte in tutta Italia! E da lì la nascita delle cooperative di giovani per coltivare le terre dei boss – la prima a Corleone, nel 2001 – e tanti progetti per aiutare enti e associazioni locali a farsi carico di immobili, terreni e realtà produttive da restituire alla collettività. Sempre su impulso di Libera, nel 2010 è stata creata l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati. Sul fronte dell’educazione, oltre ai percorsi di cittadinanza nelle scuole, dal 2005 abbiamo protocolli con diverse Università italiane per corsi di approfondimento sulla criminalità mafiosa. E sempre del 2005 è la fondazione dei presidi: motori di iniziative concrete sui territori. La prima Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie si è svolta il 21 marzo del 1996, ed è poi diventata l’approdo annuale del sostegno quotidiano ai famigliari di quelle persone. Dal 2017 è riconosciuta con legge dello Stato. Nel 2013 abbiamo contribuito con una vasta campagna civica all’approvazione della legge sullo scambio politico-mafioso. Nel 2016 è partito il progetto Common sul monitoraggio civico. Nel 2018 abbiamo partecipato alla firma del protocollo interministeriale Liberi di Scegliere, che ci ha consentito di offrire un’opportunità di vita alternativa a tante donne e minori in fuga dalle famiglie mafiose di origine. Sono solo i passaggi più significativi di un impegno che ha davvero tanti volti e non ha mai smesso di ampliarsi, assumendo anche una dimensione internazionale in Europa, America latina e Africa. Oggi per rispondere a nuove sfide ci siamo anche riorganizzati internamente: c’è una co-presidenza con la brava Francesca Rispoli, e un sistema di condivisione delle responsabilità con tutte le realtà aderenti. E c’è una nuova casa a Roma, dentro un bene confiscato, che è anche un centro di documentazione prezioso sulla storia e le storie del movimento antimafia, aperto al pubblico”.
Lei ha sempre fermato l’attenzione, sin dal primo discorso, sui concetti di democrazia e solidarietà sostenuti dall’indispensabile obiettivo di realizzare piena legalità, anche nelle zone del Paese più esposte al deficit di democrazia. Perché senza giustizia non c’è democrazia e senza verità non può esserci giustizia?
“Sono dimensioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda. La verità e la giustizia non sono “accessori” della vita, ma la condizione affinché una vita sia libera e dignitosa. E come possono delle persone a cui mancano queste garanzie essenziali, costruire, tutelare e promuovere la democrazia? Ecco perché “legalità” rischia di essere una parola vuota, se non è accompagnata dalla concretezza di interventi politici, sociali e culturali che restituiscano dignità all’esistenza di tante persone lasciate ai margini. E alle storie di tante famiglie che ancora aspettano di sapere la verità sulla morte dei propri cari. Democrazia è anche trasformare la memoria del passato in un’etica del presente, un’etica della corresponsabilità. Democrazia è partecipazione! È questo il pilastro degli ordinamenti democratici: senza il coinvolgimento attivo di tutti, la democrazia rimane un modello astratto, pronto ad essere sostituito con altri, meno “impegnativi” ma anche meno tutelanti verso i diritti fondamentali. Purtroppo oggi questo pericolo è dietro l’angolo…”.
Lei è un religioso ma ha sempre rivendicato la necessità di avere un ruolo sociale e politico e il diritto/dovere di poter incidere nella realtà. Ciò ha provocato reazioni ostili anche da governi e istituzioni. Penso a un vicepresidente del consiglio che le si è rivolto chiamandola “un signore in tonaca” solo perché lei si era permesso di porre attenzione alla possibilità in infiltrazioni mafiose nel grande appalto per la costruzione del ponte tra Sicilia e Calabria. In altre occasioni siete stati accusati di aspirare ad un potere economico con la gestione dei beni sequestrati alle mafie.
“Sono provocazioni che prendono di mira me o Libera, ma puntano a screditare un impegno più vasto. È il tentativo subdolo di far credere alla gente che nessuno si muove senza un tornaconto, e che l’interesse personale viene sempre prima del bene comune. Non è così, e tanti percorsi di valore sono lì a dimostrarlo, a partire proprio da quelli sui beni confiscati. È un falso mito quello secondo cui “ci guadagniamo”, perché non siamo neppure noi a gestirli. A guadagnarci è invece la società tutta, perché quei beni esclusivi e illeciti tornano a essere pubblici, utili e trasparenti. Quanto al mio il ruolo di sacerdote, posso dire che è sempre la fede, cioè il rapporto con il Dio amore che ci parla attraverso il Vangelo, a guidarmi: sia nelle scelte personali che nell’impegno pubblico e condiviso con altri. È la stessa dottrina sociale della Chiesa a dire che lo sforzo nel costruire condizioni concrete di libertà e giustizia ci viene richiesto dal Vangelo. La fede è anche ciò che mi fa essere “contro” le mafie, ma sempre “accanto” alle persone, incluse quelle che possono aver commesso dei crimini. C’è sempre una possibilità di conversione e rinascita, prendendo consapevolezza del male fatto e della sofferenza causata. Lo vediamo coi giovani coinvolti nei percorsi di giustizia riparativa del progetto “Amunì”. Ma lo vediamo talvolta anche in alcuni adulti, che attraversano crisi di coscienza sincere”.
Trent’anni di Libera: sembra un miracolo ciò che siete riusciti a realizzare, pur con qualche problema, a volte, di frizioni interne e qualche incomprensione.
“Quello che conta sono i fatti, le cose realizzate non certo per “miracolo” ma con fatica, studio, confronto, investimento di tempo e risorse. Quello che conta è una rete che nel tempo si è allargata e oggi ha anche una dimensione internazionale. Quando uno sforzo coinvolge così tante persone, è normale credo che qualcuno non si riconosca fino in fondo, e preferisca prendere altre strade. L’importante è che il dissenso rimanga dentro un argine di rispetto reciproco, e non danneggi il grande impegno collettivo”.
Il valore della memoria, anche come risarcimento per le vittime delle mafie.
“Purtroppo sappiamo che un risarcimento reale non potrà esserci, perché quelle persone sono morte e nessuno le restituirà ai loro cari, ai loro progetti. Ma sarebbe tanto più grave se la memoria delle loro vite spezzate si fermasse a un’ostentazione di “buoni sentimenti”. Le vittime e le loro famiglie non ci chiedono celebrazioni, ma un impegno “di carne”, quella carne che è stata a loro dilaniata dalla violenza. Ci chiedono di liberare il passato dal velo delle tante verità nascoste o manipolate, ma anche di liberarci dalla retorica della memoria, quella memoria che usa parole d’occasione per celebrare in morte ciò che ha dimenticato o omesso di difendere in vita”.
Il suo rapporto con la Chiesa. L’incontro con Bergoglio insieme coi familiari delle vittime.
“È stato un momento intenso. Resta nella memoria di tutti noi l’appello del Papa a continuare senza scoraggiarsi: “Il desiderio che sento è di condividere con voi una speranza, ed è questa: che il senso di responsabilità piano piano vinca sulla corruzione, in ogni parte del mondo”. Nella Chiesa di Papa Francesco mi sento particolarmente a casa. Perché non vuole convertire gli altri e portarli al suo interno, ma apre le porte per uscire nel mondo e condividerne le fatiche. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” ha scritto Bergoglio nella Enciclica Evangelii Gaudium.
Quest’anno tornate in Sicilia, c’è un rapporto particolare con quella terra?
“Si può dire che proprio in Sicilia tutto sia nato. È dalla Sicilia sconvolta per le stragi mafiose del ‘92 che partirà quell’ondata di ribellione morale e fermento civile destinata nel giro di pochi anni a trasformare il nostro modo di concepire l’antimafia, richiamando i cittadini tutti a mettersi in gioco al fianco delle istituzioni, ma anche a denunciare le loro inadempienze. Fra le storie siciliane, avremo quest’anno un’attenzione speciale per le vittime del territorio di Trapani. Ricordo ad esempio Mauro Rostagno, il sociologo, attivista e giornalista torinese assassinato per la sua denuncia puntuale non soltanto dei crimini mafiosi, ma della rete di complicità di cui potevano godere. E poi i piccoli Giuseppe e Salvatore Asta, uccisi a pochi anni insieme alla loro mamma. La sorella maggiore Margherita è diventata un punto di riferimento importantissimo dentro Libera”.
Nell’isola si è combattuta una battaglia importante per la legalità e a sostegno del lavoro di una magistratura non sempre sostenuta dai governi, come accade nel momento attuale in cui si depotenziano gli strumenti di legalità delegati ai giudici in nome di un presunto primato della politica.
“Il conflitto fra governo e magistratura non può che indebolire la democrazia. Bisogna fare attenzione a chi cerca di far passare il ruolo di garanzia dei giudici, e quindi anche la loro attività di verifica costituzionale delle leggi, come se fosse un’ingerenza indebita. La verità è che il legittimo esercizio del potere, se pretende di svincolarsi da qualsiasi controllo, diventa illegittimo. E apre la porta a pericolosi abusi. Troppe volte abbiamo visto istituzioni corrotte fiancheggiare le mafie anziché combatterle. Ma anche laddove non esiste una complicità diretta, ci sono scelte legislative che possono avvantaggiare il mondo criminale: un mondo in continua trasformazione, che si adegua alle opportunità dei mercati. Oggi le mafie uccidono meno, ma sono più forti. Mafie transnazionali, tecnologiche e imprenditoriali, che nel nome degli affari hanno rinunciato a sfidare apertamente lo Stato e persino a farsi la guerra al proprio interno, preferendo quasi sempre agire sottotraccia: meno delitti, più profitti. Non ha neppure più senso parlare di “contaminazione” mafiosa, perché assistiamo a una sovrapposizione fra obiettivi e metodi dei boss e di un certo capitalismo liberista senza freni. La stessa ingordigia, la stessa prepotenza, lo stesso disprezzo per la vita e la dignità umana e per l’integrità dell’ambiente. Le imprese criminali agiscono stabilmente insieme a quelle legali, diventando “fornitrici di servizi” per imprenditori senza scrupoli, che apertamente ne cercano la collaborazione. Quando ci sono poteri, magari legittimati dal voto popolare, che prendono apertamente a modello la spregiudicatezza mafiosa, il pericolo che la democrazia collassi è reale. E l’equilibrio fra organi dello Stato diventa un argine da salvaguardare o ogni costo”.
Fonte: La Stampa, 16/03/2025