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Le forze di polizia sono democratiche?

Danilo De Biasio * il . Costituzione, Diritti, Forze dell'Ordine, Istituzioni, Politica

Le forze di polizia sono democratiche?

La risposta corretta è: dovrebbero. Appunto, dovrebbero. Ovviamente non stiamo parlando dei singoli individui che compongono le forze di polizia, ma del suo insieme.

Se democratico significa, etimologicamente, governo del popolo allora nessun sistema fortemente gerarchizzato lo è. Se non posso votare chi mi governa e devo rispondere sempre signorsì non è un sistema democratico. Storicamente c’è una giustificazione: ogni sistema gerarchizzato è pensato per agire in situazioni emergenziali dove non c’è tempo per discutere e votare. Per esempio in guerra.

Ok, ma le forze di polizia funzionano 365 giorni all’anno, non solo in contesti di emergenza. E infatti nel corso degli anni sono stati introdotti i contrappesi: un rapporto organico con il Parlamento, quindi con l’insieme dei rappresentanti della volontà popolare, supervisione della magistratura, sindacalizzazione. Sono contrappesi sufficienti? Mica tanto. E lo vediamo da tempo.

Da anni mi occupo di questi temi per motivi personali e professionali. Piero Scaramucci, fiutando negli anni ‘80 puzza di trame, mi chiese di occuparmene. E quindi oltre a studiare coltivai rapporti con diversi funzionari in divisa, alcuni in ruoli apicali. Testi accademici e il rapporto con queste fonti mi hanno confermato questo intrinseco deficit di democrazia. In poche parole la riforma democratica della Polizia, figlia dei movimenti progressisti degli anni ‘70, diventata legge il 26 aprile 1981, venne poco alla volta svuotata con una politica di sindacalizzazione corporativa e con la deriva securitaria. (Per chi ha poco tempo consiglio questa lettura succinta e precisa).

Le cose peggiorarono a livello internazionale, come spiega uno dei più attenti studiosi di queste dinamiche, il sociologo Salvatore Palidda. Palidda confrontando i comportamenti delle forze di polizia in molte nazioni è arrivato a concludere – spero mi perdonerà per la sintesi – che lo stato di guerra permanente aveva ri-militarizzato la polizia. Parole d’ordine e tecniche di addestramento hanno portato nelle città, specie nelle periferie, i comportamenti tipici di chi opera in scenari di guerra.

Un’operazione che alimenta e a sua volta viene alimentata dalle politiche della paura. Antonio Scurati lo fa dire a Mussolini nella serie tv M: trasformare la paura in odio.

L’analisi di Palidda continua su un terreno che ci porta ai fatti di questi giorni: il razzismo. Innanzitutto, fa notare il sociologo, occorre partire dalla nazione-guida: negli Stati Uniti c’è un filo rosso che lega lo storico suprematismo bianco, le repressioni contro i movimenti per i diritti civili (spesso con leader afroamericani), e il modello di guerra permanente. Modello esportato in tutto il mondo. “Un’altra possibile lettura – scrive Palidda – vede nella diffusione della violenza razzista il supporto alla volontà di assoggettare il nero e in genere l’altro alla condizione di inferiorizzazione; ne consegue che la criminalizzazione razzista appare funzionale al neocolonialismo, notoriamente per ciò che riguarda la riduzione degli immigrati in condizioni di neoschiavitù”. Vi ricorda qualcosa?

A me ricorda le cariche contro i lavoratori delle compagnie di logistica in sciopero. La profilazione razziale. E anche l’inseguimento sproporzionato dei carabinieri che ha portato alla morte di Ramy Elgaml. E, notizia recente, la perquisizione intima alle manifestanti di Brescia.

Dicevo che c’erano anche motivi personali nella conoscenza di questi fenomeni. La casa dei miei genitori è sempre stato un porto di mare e per un certo periodo abbiamo ospitato un parente arruolato in polizia. Durante il periodo di addestramento veniva a mangiare da noi e portava qualche suo collega, anche lui giovane, provinciale e in carenza di calore familiare. Sociologicamente è stato un esperimento interessante: erano tutte persone smarrite, facilmente malleabili, con un retroterra di stereotipi da manuale. “Ma tutta quella gente che dorme per strada non è pericolosa?”, mi ha chiesto uno di questi giovani allievi poliziotti. Capite? Avere paura di un clochard …

Ricapitolando: mediamente le forze di polizia sono addestrate per sospettare, è un corpo chiuso dove comandano la scala gerarchica e il cameratismo. I conflitti armati e il vento di destra le spinge a militarizzarsi ulteriormente.

Perché è così dirimente assicurarsi della fedeltà democratica degli agenti dell’ordine pubblico? Perché sono individui che hanno il pesante privilegio e la terribile responsabilità dell’uso legittimo della forza. In parole più semplici possono manganellare, sparare, arrestare, fare inseguimenti.

Ma la storia – purtroppo – non finisce qui. Nel ddl sicurezza il Governo vorrebbe inserire misure che aumentano l’arbitrarietà dei comportamenti delle forze di polizia. Per esempio una sorta di “scudo” penale per gli agenti che – a detta della magistratura – agiscono oltre i limiti di legge. Se guardiamo l’insieme del provvedimento – pene più pesanti per chi fa picchetti, chi rifiuta il rancio in carcere, chi contesta una grande opera – il quadro diventa oggettivamente preoccupante.

E allora la domanda iniziale si conferma per nulla retorica e quanto mai concreta: se ti chiami forze dell’ordine pubblico dovresti costituzionalmente agire per il bene pubblico. Certo, ci deve essere equilibrio tra interessi opposti, ma se tra i manifestanti in sciopero, perché sfruttati, e il datore di lavoro, che li sfrutta, manganelli i primi invece di sbattere in galera i secondi significa che non ti fanno più agire per il pubblico ma per gli interessi privati.

Dei 200mila poliziotti e carabinieri, dei 25mila tra finanzieri e agenti penitenziari non ho dubbi che la stragrande maggioranza siano persone per bene, convintamente democratiche.

Ne avremo un ulteriore conferma se, dopo quello che abbiamo sentito dai carabinieri che inseguivano Ramy, il Comandante Generale dei Carabinieri Salvatore Luongo e il Questore di Milano Bruno Megale – di cui conosco il valore – incontrassero la famiglia del giovane morto e dicessero: “viviamo in uno stato di diritto, vi assicuriamo che non ci sono cittadini di serie A e di serie B, attendiamo l’esito delle indagini e vi ringraziamo per le vostre parole di fiducia nei valori della democrazia”. Succederà?

Grazie per aver letto e ascoltato Rights Now. Se ti è piaciuta aiutami a farla conoscere inoltrandola ai tuoi contatti o parlandone con chi sai che ha a cuore i diritti umani.

* Direttore della Fondazione Diritti Umani

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