Ricongiungimenti familiari. Dalle Ande alla Padania: giovani cittadini esemplari
Non mi era mai capitato. Mai mi era successo di avere tra le mani, in contemporanea, tre testimonianze scritte delle fatiche per cui i giovani immigrati devono passare quando arrivano in Italia.
Testimonianze sincere e trasparenti. Non pensate per giornalisti o magistrati. Ma raccontate quasi privatamente in una di quelle riflessioni autobiografiche che i lettori sanno essere caratteristiche dei miei studenti nelle prove scritte. Hanno il timbro di storie nate in Perù, in Colombia e in Ecuador, i paesi delle nostre badanti o collaboratrici domestiche.
Mi ha dunque colpito trovarmi davanti al significato vero di quei ricongiungimenti familiari spesso accusati, da almeno un ventennio, di essere un mezzo quasi truffaldino per allargare le maglie dell’immigrazione. Ecco come si allargano “impropriamente” le maglie. Magari partendo dal proprio paese a otto anni per raggiungere, da soli, la mamma di fatto mai conosciuta. E venuta a lavorare per una o più famiglie in Italia per mantenerli. Fino a quell’età “mia nonna è stata come una madre, anzi è stata mia madre”.
Il bravissimo studente universitario che ho davanti, e che ha ormai un lavoro in cui va conquistando successi gratificanti, conduce quasi in volo da un’aula per le tesi di laurea verso le montagne andine in cui una nonna totalmente analfabeta gli impartiva tesori di saggezza e di umanità. “Mi invitava a diffidare degli ‘atajos’, le scorciatoie”. “Uno degli insegnamenti più importanti della mia vita lo devo a lei. Mi diceva sempre, a proposito dell’importanza delle parole, ‘ricordati che quando tagli il collo a una persona, la testa non gliela puoi riattaccare’. L’ho potuta rivedere solo una volta. Ne ho nostalgia”.
Ci rifletto. Le Ande che non sanno né leggere né scrivere e dove si parlano lingue scomparse distillano questa saggezza per giovani venuti a lottare con le proprie forze per andare avanti, tra le “maglie larghe” dell’immigrazione.
C’è chi ricorda i primi tempi dopo l’arrivo a Milano in cui le uniche forme di socialità erano quelle offerte dai coetanei che venivano dagli stessi luoghi. “Ci si ritrovava a bere e ballare, in quell’atmosfera non mi veniva voglia di studiare”. Poi l’esperienza rigenerante dell’arte: il teatro, con migranti e rifugiati.
“Ho dovuto subire discriminazioni di diverso tipo”. Maturando un doppio punto di vista sulla società italiana. Per un verso vissuta come “molto opportunista e pronta alla lamentela e all’indifferenza”, con “una cupidigia che ha consumato un sistema di welfare e di possibilità che farebbero invidia a più della metà del mondo”. Per altro verso meritevole di “gratitudine senza ricordarsi di che” (copyright Erri De Luca), ma ben sapendo “che cosa c’è stato per permetterci di arrivare dove siamo oggi”.
Racconta uno studente di essersi commosso nell’ascoltare storie di morti annunciate dei nostri eroi dell’antimafia, “dato che la Colombia ha una storia dove il sangue per le strade è anch’esso incrostato, ma è anche liquido e fresco”. Aggiungendo che “per una persona che ha vissuto in cinque paesi diversi”, venendo “etichettata continuamente” è bello vedere sottolineare in un capitolo “l’importanza del viaggio come fonte di conoscenza” e l’incontro come mezzo per “abbattere barriere e costruire fortezze di memoria”.
Leggi e resti meravigliato che questo sia il livello della lingua di cui questi “ricongiunti” si sono nel frattempo dotati, altro che prove di italiano per la cittadinanza. Ti affascina anzi la combinazione tra il rigore della nostra lingua e la potenza immaginativa della lingua latino-americana.
Chiudi questi esami nella consapevolezza che la formazione, non solo scientifica ma anche civile, di questi “ricongiunti” ne fa comunque dei cittadini esemplari per la società italiana. E che i nostri metri di giudizio ci tengono sempre al di sotto della verità.
In ogni caso benvenuti al Nord, figli delle “maglie larghe”.
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 13/01/2024
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