Viaggio al termine di Trenord. Incollato al finestrino sperando di capire dove sei
Quella che vado a raccontarvi è una storia sgradevole.
Soprattutto per me che da decenni cerco di servire con onore la causa della Lombardia. E ne magnifico lo spirito pubblico, anche quello sommerso. E le università e le scuole. Ma le cose sgradevoli bisogna dirle. Proprio per spirito di servizio.
Parlerò dunque di Trenord, per come l’ho conosciuta in questi giorni post-natalizi.
E dirò subito che non credo vi sia in giro niente di più antilombardo. Quasi pensato a tavolino per dare un’immagine antidiluviana della regione che pur dovrebbe essere la locomotiva (oh, come le parole fioriscono per associazione) del nostro Paese. Non dico per i ritardi, che mi appaiono del tutto tollerabili, anche se molti si sono affrettati a dirmi che sono stato fortunato. Qui parlerò solo di quel che ho visto io.
Chi si mette in viaggio (se ci riesce, poiché partire da Porta Garibaldi è un’impresa) non riceve una informazione sulla sua stazione di arrivo. È indicata sul biglietto (che nessuno controlla). Ma poi sul suo avvicinarsi e comparire non si riceve una notizia che sia una.
Ormai a questo scopo il mondo, perfino in Italia, ha inventato di tutto. Talora da circa un secolo. Nel senso che quando arrivi a una fermata c’è una voce che in diretta o su pista registrata ti dice “Lecco, stazione di Lecco”. Ha fatto la storia delle allora Ferrovie dello Stato una voce stentorea che diceva ai viaggiatori in arrivo in Calabria “Paola, stazione di Paola”, e chi conosceva solo i capoluoghi di provincia si domandava, specie di notte, dove diavolo fosse. Ma sapeva almeno dove si era fermato.
Be’, con Trenord nulla di questo. Devi correre ogni volta alle porte della carrozza per vedere dove tu sia giunto, perché dai finestrini non ci riesci. O capiti proprio davanti al cartello indicatore o puoi impazzire. Non crediate infatti che arrivando in una stazione minore ci siano due-tre cartelli ad avvertirvi. Ho fatto la prova: anche stando con gli occhi appiccicati sul finestrino non ne vedi proprio che te ne diano avviso. E siccome le stazioncine si susseguono fitte, ogni volta è una corsa -certo, non mozzafiato- per non sbagliare fermata.
Nemmeno Busto Arsizio, che pure ha il suo bel tribunale, ti viene annunciata. Né l’annuncio viene dato all’interno del treno, che è visibilmente un’era geologica indietro rispetto ai tram di Milano. I quali ti informano sulla fermata a cui sei arrivato e sulla prossima. Non viene dato a voce, ma nemmeno attraverso lo schermo illuminato che per tutto il viaggio ti avvisa che stai andando a Treviglio (già, Treviglio e basta) anche se passi da Milano (Milano…).
La sera poi, che in questo periodo parte dalle sei del pomeriggio, non vedi assolutamente più nulla. Perché la luce interna trasforma i finestrini in specchi impedendoti di vedere perfino la fisionomia dell’ambiente esterno.
Insomma. Una catastrofe. Sono treni pensati esclusivamente per chi, per abitudine di vita, conosce alla perfezione il percorso e le necessità. Ossia per i poveri pendolari. Nessun visitatore, per nessuna ragione pubblica o privata. Così ho fatto fatica a dare informazioni a un romeno che voleva andare a Parabiago per lavoro.
Viviamo nella società dell’informazione in cui non esistono informazioni. Nella società globale in cui devi rivolgerti ogni cinque minuti ai nativi. Con stazioncine totalmente vuote in cui non puoi chiedere nulla a nessuno.
Ma non c’è un responsabile che abbia mai percepito questo scandalo che precipita la Lombardia indietro di decenni, come non bastasse la sanità? Nessuno con una minima dose di amor patrio?
Immaginando le smentite sussiegose, invito da qui chi le farà a dichiararsi disposto a viaggiare un giorno su Trenord con il sottoscritto e un fotografo del Fatto.
La conoscenza nasce da quello che si vede, sosteneva Erodoto. Lo diceva riferendosi a chi scrive la storia, figurarsi chi deve pensare ai bisogni del popolo.
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 06/01/2024
Trackback dal tuo sito.