La comunità terapeutica per tossicodipendenti come alternativa al carcere
Alcuni giorni fa si è riacceso (solo per poco) il dibattito politico sul sovraffollamento nelle carceri, elencando una serie di possibili interventi tra cui la limitazione alla carcerazione preventiva, l’incremento dei giudici di sorveglianza e di agenti della polizia penitenziaria, il riconoscimento della pena nelle comunità terapeutiche per i tossicodipendenti.
Su quest’ultimo punto, in particolare, già la legge 532 del 1982, dava la facoltà ai giudici, in sede applicativa, di estendere ai soggetti tossicodipendenti, sottoposti a giudizio per qualche reato, la possibilità di poter scontare la pena presso le comunità terapeutiche, aprendo così un’importante strada per il perseguimento di due finalità, il recupero del tossicodipendente (sono stati davvero pochi quelli che hanno scelto la strada, non facile, delle comunità) e l’apertura di un canale di deflusso per l’annoso problema, mai risolto in realtà,del sovraffollamento carcerario.
Un altro passo importante fu rappresentato dalla legge 398/1984 che, all’art.35, considerava per alcuni versi la comunità terapeutica, individuata con decreto del Ministero della Giustizia, come ente alternativo al carcere e non come luogo di privata dimora.
Il legislatore, tuttavia, ebbe il merito, non prevedendo un obbligo per le comunità di accogliere il reo tossicodipendente, di lasciare a queste la piena libertà della valutazione dell’opportunità o meno del suo eventuale ingresso ai fini del recupero, in relazione alla situazione psichica del soggetto. Non va dimenticato che la prima valutazione della effettiva volontà del tossicodipendente di uscire dal “tunnel” della droga è uno dei cardini su cui fa leva l’opera ed il conseguente esito dell’attività di recupero della comunità; una forzatura normativa in questo senso sarebbe, stata quanto mai deleteria, potendo verificarsi dei casi in cui la scelta comunitaria non producesse effetti per l’accertata assenza di volontà protesa all’uscita dal “tunnel”.
Tutte le comunità sono animate dai cosiddetti gruppi terapeutici che costituiscono nuclei dinamici di aggregazione essenziali della vita comunitaria. Tali gruppi dispiegano la loro azione in più direzioni, occupandosi di argomenti e fatti relativi a ciascun ospite in fase di recupero: possono riferirsi ad un tipo d’insegnamento specifico, al trattamento dei problemi della famiglia, possono favorire i processi di auto rivelazione o sono di sostegno, di terapia educativa, di lavoro, di analisi e di trattamento psicologico. Essi attuano tutta una serie di strategie con lo scopo unico ed esclusivo di operare per la ricostruzione psichica del tossicodipendente, in modo tale che non si trovi “perso” a decidere da solo su questioni vitali per il suo futuro.
Per il recupero del tossicodipendente occorre che egli acquisisca la piena consapevolezza di quello che realmente è e per raggiungere tale scopo esiste un gruppo molto particolare detto “d’incontro” che attua un tipo di dialogo “d’assalto” con il quale cerca di costringere il tossicodipendente ad un esame introspettivo del suo comportamento e del suo modo di vivere. Anche se il drogato, una volta entrato in comunità, ammette di essere tale, egli tenta comunque di auto ingannarsi sulla sua reale dipendenza dalla sostanza; è compito del gruppo ricordargli continuamente la situazione reale e di non illudersi sull’effettivo auto convincimento proclamato a voce.
Per questo e per far capire al tossicodipendente come un familiare troppo amorevole o comprensivo nei suoi confronti o un amico potrebbe favorire il suo vizio, il gruppo deve utilizzare un linguaggio molto duro e violento (io stesso ho assistito, anni fa, a tali momenti durante le visite fatte per conoscere meglio le realtà di diverse comunità).
Il messaggio semplice ed essenziale che viene dalle comunità è un richiamo alla eterna e sempre valida filosofia del fare, del non tirarsi indietro di fronte a chi, palesemente dimostra di avere bisogno di aiuto, del non rifiutare le proprie responsabilità e del non cercare alibi nella propria incompetenza.
“I care”: mi riguarda, è compito mio. Un imperativo categorico alla base di ogni possibile società civile.
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