Buoni esempi. Brancaccio, il carcere e i partigiani: tre voci fuori dal coro
Questa è una trilogia d’amore, dove non trovano posto né cuori infranti né smancerie. La compongono tre persone che fanno la storia che non si vede. Una di loro, anzi, oggi può farla solo attraverso il suo esempio.
Se ne è andato padre Maurizio Francoforte, il parroco di Brancaccio, il quartiere palermitano in cui testimoniò prima di lui padre Pino Puglisi. La storia di questo ulteriore “don” straordinario è già stata regalata dal “Fatto” ai suoi lettori lo scorso settembre.
Fu allora che lo incontrai con una quarantina di studenti universitari milanesi. Era già provato dalla malattia, ricordo che camminava con l’ossigeno. Ma ci accolse con generosità, contento di potere raccontare all’ennesimo gruppo di giovani la storia e il sacrificio di don Pino. Ci trattava come amici, come se ci avesse sempre conosciuti. Fece portare della pizza per noi che ci eravamo seduti intorno a lui nel giardinetto della parrocchia. Volle accompagnarci per le strade del quartiere, mostrarci la scuola elementare, e pure la casa dove ancora vive qualcuno dei Graviano, la famiglia dei mandanti di quell’ assassinio.
E ricordo quella coppia di giovanissimi in scooter che per sfregio gli urlarono una bestemmia in faccia senza che lui si scomponesse, pronto ad accarezzare i bimbi che vagavano per strada. Lo amammo tutti. Un paio di studentesse (Bianca e Benedetta) decisero di fare la tesi di laurea sui modelli educativi proposti dalla parrocchia di quel luogo impervio. Ora per fortuna vale il principio di Seneca: se lunga e difficile è la strada dei precetti, rapida ed efficace è la strada dell’esempio.
Anche della seconda persona il “Fatto” ha parlato molti anni fa.
È Silvia Polleri, la ormai conosciuta creatrice e direttrice della cooperativa (ABC la sapienza in tavola) che nel carcere di Bollate offre lavoro vero ai detenuti grazie a un catering rinomato, nato e cresciuto “in galera” (questo il nome del ristorante).
Quando ho visto il suo nome sull’iPhone ho pensato fossero gli auguri. No, proprio nessun inno al Natale (in cui crede). Era invece un articolo, girato in forma di lettera aperta, contro le condizioni carcerarie. Un bisogno di continuare a stupirsi per la solitudine e la violenza che percorrono, nonostante tutto, i luoghi della detenzione. Per l’idea della punizione come vendetta.
Il suo era piuttosto un inno alla dignità. La prosecuzione di un inesausto impegno ventennale. Che voleva fare sentire la sua voce anche nei giorni di Natale, senza temere di finire tra i guastafeste a causa di quel fastidioso monito in sottotitolo: non siamo tutti buoni, non è vero nemmeno a Natale. Basta che tu voglia guardarti in giro.
La terza persona di questa trilogia dell’amore (bambini, detenuti, e ora partigiani) non ha invece ancora trovato spazio sulle nostre pagine.
È Giuseppe Chiarillo. Uomo del sud che vive in provincia di Bologna. Lo conobbi quando era sindaco di Galliera, un piccolo comune cosiddetto “sparso” di 5600 abitanti. E da quel luogo conosciuto si dava da fare per le cause più grandi dell’antimafia civile. Con i pochissimi fondi di cui disponeva invitava, tesseva e organizzava, sangue lucano di democrazia. Poi si è dedicato al volontariato antifascista dell’Anpi. E a recuperare i corpi dei suoi conterranei deportati per essersi rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò.
Una fatica immane e inutile? No, in questi giorni mi è arrivato l’annuncio che l’11 gennaio alla presenza del ministro dell’Interno rientreranno le spoglie di due giovani deportati di Accettura, in provincia di Matera.
C’è anche la foto di una lapide scattata in un camposanto di Berlino. “Soldato Donato Belmonte, 1916-1944”. Un paio di fiori bianchi deposti sopra, legati da una striscia tricolore. Dietro, ritto in piedi, un prete che benedice.
Questi preti, ho pensato. Li trovi dappertutto. In tanti posti sbagliati, ma anche in tanti posti giusti, dove non trovi nessun altro.
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 30/12/2024
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