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Saltano le condanne alla ‘ndrangheta stragista ma non i fatti accertati. Fatti di cui Colosimo dovrebbe occuparsi

Davide Mattiello il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica

Al di là delle intenzioni dei magistrati, la cui indipendenza è sacra, l’effetto della sentenza della Cassazione che annulla con rinvio le condanne per omicidio di Graviano e Filippone, rischia di essere l’esatto contrario dell’effetto che produsse la Cassazione del 30 gennaio 1992 sul Maxi processo a Cosa Nostra.

Se quella sentenza contribuì in maniera decisiva a “tirare il grilletto” della strategia terroristico-mafiosa volta a destabilizzare le istituzioni per stabilizzare nuovi assetti di potere, questa sentenza può contribuire in maniera altrettanto decisiva a disinnescare definitivamente alcune “mine” giudiziarie con la conseguenza, non riconducibile alla volontà dei magistrati (fino a prova contraria), di stabilizzare gli attuali assetti di potere, i quali potranno continuare nella loro azione di destabilizzazione degli equilibri istituzionali fissati dalla Costituzione del ’48.

E questo effetto “pacificatorio” potrà essere tanto più rotondo di quello prodotto dalla Cassazione sul processo “Trattativa” in quanto tanto meno atteso, vista la solidità della “doppia conforme” con cui il processo ‘Ndrangheta stragista si presentava al giudizio della Suprema Corte.

Certo, al di là della qualificazione giuridica per la quale dovremmo attendere ancora, resta la miniera di fatti accertati nei due gradi di processo, fatti per altro ritenuti verificati e ben qualificati anche dal Sostituto Procuratore generale di Cassazione, Antonio Balsamo, che infatti aveva chiesto ai Giudici di rigettare tutti i ricorsi.

Fatti dei quali dovrebbe occuparsi la Commissione Antimafia presieduta dalla on. Colosimo, se avesse davvero a cuore la salvaguardia di quella imparzialità istituzionale che rivendica sonoramente ad ogni piè sospinto. Fatti che rimandano all’alleanza criminale tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta nella realizzazione della strategia terroristico-mafiosa che scosse l’Italia tra il 1992 ed il 1994.

Fatti che inducono a ritenere che i singoli attacchi di quel periodo fossero inseriti tutti in una unica strategia di destabilizzazione delle Istituzioni che cominciò quanto meno con la strage di Capaci ed arrivò fino a quella “mancata” dell’Olimpico di Roma, dove si sarebbe dovuto consumare un terribile attentato contro i carabinieri in servizio allo stadio.

Fatti che inducono a ritenere che alcuni specifici interessi dei mafiosi (41 bis, collaboratori, confische…) si mescolassero con un piano molto più complesso e prevalente, relativo alla ridefinizione degli assetti di potere in Italia, all’indomani del terremoto provocato dalla fine della “terza guerra mondiale” (alias “Guerra fredda”), dal disvelamento pubblico di Gladio da parte di Andreotti nell’Ottobre 1990, dalla già citata sentenza di Cassazione del gennaio 1992 sul maxi processo contro Cosa Nostra e dalla contestuale apertura dell’inchiesta Mani Pulite a Milano.

Fatti che inducono a ritenere che i mafiosi fossero parte attiva di questo piano più complesso (appunto prevalente, tanto da far loro concludere quel “pessimo affare” in via D’Amelio), e che non siano stati mai il subalterno braccio armato di altre regie politiche, come certuni vorrebbero lasciar intendere che abbiano creduto coloro che semplicemente non si sono arresi a letture di comodo, al solo intento di delegittimarli e ridicolizzarli.

Fatti che inducono a ritenere che la strategia terroristico-mafiosa non avesse il mero intento di vendicarsi dei nemici storici, ma nemmeno quello di tentare un’ultima impossibile difesa degli equilibri di potere precedenti al terremoto: stragi ed attentati che infatti non servirono a salvare dai guai né Giulio Andreotti, che perse la presidenza della Repubblica, iniziando con quanti gli rimasero vicini una inarrestabile decadenza, stigmatizzata dal successivo riconoscimento anche sul piano giudiziario delle sue relazioni criminali con Cosa Nostra, né Raul Gardini, che si suicidò il 23 luglio del 1993, né il sottobosco di mafiosi, imprenditori, colletti bianchi e faccendieri che si ingrassavano all’ombra di quei campioni della Prima Repubblica.

Infatti, come ampiamente e puntualmente documentato dalla “Memoria Caselli” del 1999 in Commissione Antimafia, non ci furono sconti per il sodalizio criminale che vedeva “attovagliati”, tra gli altri, manager del Gruppo Ferruzzi e Cosa Nostra.

Fatti che inducono a pensare che stragi ed attentati, punendo spietatamente nemici ingestibili (Falcone e Borsellino), amici deludenti ed tanti poveri cristi, nella maniera più spettacolare possibile per imporsi violentemente all’attenzione della opinione pubblica, dei media e dunque della politica, rappresentassero l’apertura di un negoziato senza precedenti (niente a che vedere con il secondo dopoguerra) tutto proiettato sul futuro, un futuro che avrebbe dovuto avere nuovi interlocutori, forti, seri e ben disposti.

Fatti che inducono a ritenere che questo negoziato fosse “accompagnato” da una costante interlocuzione collaborativa con pezzi di Servizi segreti, a questo rimanda infatti l’utilizzo della sigla “Falange Armata” fin dal 1990, quando si trattò di infangare prima ed assassinare poi l’educatore carcerario Umberto Mormile, reo proprio di essere stato testimone di quelle interlocuzioni collaborative (anche per questo andrebbero meglio approfondite genesi, intenti, confini dell’art 31 del ddl Sicurezza in approvazione al Senato!), a questo rimanda la presenza di quel fuoristrada blu, appartenuto al prematuramente scomparso Giovanni Aiello.

Ecco, presidente Colosimo, sarebbe meglio per la Nazione occuparsi di quel fuoristrada blu, almeno quanto di quel furgone bianco targato Ravenna, che stava dove sarebbe esploso l’inferno di Capaci. Ma non lo farà e questo ahi noi non desterà più alcuna sorpresa.

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