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Il bavaglio dell’algoritmo. I nuovi limiti alla cronaca giudiziaria

Giulio Vasaturo * il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Informazione, Istituzioni, Politica

«Niente più virgolettati! Non si può più riportare la citazione testuale! L’intelligenza artificiale vi sarà utile per fare il sunto dei provvedimenti del gip!». È questo l’amaro consiglio, ponderato in scienza e coscienza, che mi trovo a ripetere da giorni, da modesto “leguleio”, a tutti quei giornalisti che mi domandano «cosa cambia in concreto col nuovo decreto legislativo in materia di cronaca giudiziaria?».

L’ennesima modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale, una delle norme più farraginose dell’intero ordinamento di rito, preclude infatti, in via definitiva, ogni possibilità di pubblicare letteralmente, per intero o per stralcio, le “ordinanze che applicano misure cautelari personali” e ciò «fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare».

Anche in caso di delitti di enorme rilevanza sociale e di lampante interesse pubblico, viene così impedito ad ogni cittadino, per un periodo potenzialmente assai lungo, di accedere al testo originale del documento con cui l’autorità giudiziaria ha disposto la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, l’obbligo o il divieto di dimora, il divieto di espatrio, l’interdizione da un pubblico ufficio o l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, a carico di persone gravemente indiziate di reato.

Si tratta di provvedimenti che sono già ampiamente noti a tutte le parti coinvolte nell’inchiesta giudiziaria e quindi, in primis, agli indagati ed ai loro difensori. Il segreto (c.d. esterno) incide, in maniera tanto perentoria, solo ed esclusivamente a discapito dell’opinione pubblica e della compagine comunitaria in nome della quale viene esercitata la giustizia penale nella nostra democrazia.

Tutti questi atti, nella loro stesura originale, continueranno ad essere conosciuti e valutati solo da pochi “aventi diritto” mentre non potranno essere in alcun modo divulgati «tramite la stampa e gli altri mezzi di comunicazione sociale», come ha chiarito in più occasioni la Suprema Corte (si v., fra le altre, Cass. n. 32846/2014). Il parallelo diritto-dovere di garantire una libera informazione su fatti e vicende di ineludibile valenza collettiva viene considerato, in questa accezione, del tutto “recessivo” rispetto alle esigenze di salvaguardia del «proficuo svolgimento delle indagini preliminari» (così Cass. n. 41640/2019 e Corte Cost. n. 59/1995).

Agli organi di informazione resta riconosciuta, almeno sino ad ora, la residuale libertà di riprodurre espressamente le sole “ordinanze cautelari reali”, vale a dire i provvedimenti di sequestro preventivo o conservativo di beni nei confronti di un indagato.

La scelta del legislatore risuona oltremodo singolare. Al giornalista rimane (provvidenzialmente) consentito di pubblicare i «contenuti», cioè il mero riassunto dei provvedimenti cautelari “personali”, ma viene proibito di riportarne il “virgolettato”.

Si ribadisce, in tal modo, l’obbligo di prosa dell’atto giudiziario: col paradosso, da un lato, di esporre suo malgrado l’indagato/presunto innocente alla incolpevole distorsione ermeneutica delle parole del gip, da parte dei media e, dall’altro lato, di esasperare la parzialità e persino la “politicizzazione” della cronaca giudiziaria, con riflessi tutt’altro che rassicuranti nella dimensione introspettiva dei collegi giudicanti e, in primis, dei giudici popolari di Corte di Assise (i più sensibili, secondo autorevoli studi di psicologia forense, a fattori emotivamente fuorvianti).

Le ricadute di questa (contro)riforma del lavoro giornalistico sono parimenti preoccupanti. La personalizzazione obbligata nella trasposizione degli “ordini di arresto” accentua il rischio, per ogni giornalista, di incorrere nella “ritorsione collaterale” delle querele o delle azioni civili temerarie.

Privato dello “scudo” del “virgolettato giudiziario”, il cronista sarà facile bersaglio di quanti vorranno sfogare su di lui, attraverso la clava delle slapp, i risentimenti derivanti dalle accuse “infamanti” del pubblico ministero. Se, fino a ieri, la fedele riproduzione dei brani dell’ordinanza cautelare rendeva il giornalista, in qualche modo, immune da ogni plausibile recriminazione per l’ipotesi accusatoria di cui si faceva, doverosamente e semplicemente, latore; non mancherà, da domani, chi vorrà contestare ai media l’utilizzo “creativo” di termini e glosse che, affrancate dagli stilemi propri degli inquirenti, saranno (strumentalmente) tacciate di essere di per sé lesive della reputazione altrui.

È facile immaginare come questa evenienza, quanto mai realistica, sia destinata ad amplificare l’impatto nefasto del chilling effect: la tendenza di editori e giornalisti, soprattutto free-lance e di testate locali, ad auto-limitarsi nel riportare le notizie sulle indagini penali in corso, proprio per non incorrere in azioni legali più o meno pretestuose e vessatorie.

La speranza, a questo punto, è che la Consulta venga chiamata a valutare al più presto la compatibilità di queste incessanti limitazioni normative alla cronaca giudiziaria con le prescrizioni europee in tema di libertà di stampa, a cui il nostro Paese è costituzionalmente obbligato ad attenersi.

* Avvocato penalista e criminologo

Fonte: Articolo 21

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