Lampi di memoria. Contro i vigliacchi: la lezione al bambino in calzoni corti
Chissà perché quando parliamo di apologhi pensiamo prevalentemente a Menenio Agrippa o ad Esopo e alle sue favole di animali. E invece, ben al di là del Vangelo, ne abbiamo pieni gli armadi.
Io ad esempio ne ho qui uno che non saprei definire altrimenti, e che affonda le sue origini nella mia più tenera età. Mi è stato riportato alla mente da fatti vissuti di recente e che si sono inerpicati dispettosamente a ritroso sulla mia memoria, fino a giungere all’infanzia. E ai miei pantaloncini corti.
Lo chiamerò l’apologo del bambino di caserma. Eccovelo.
C’era una volta un bambino di sette anni che viveva in una grande città entro una caserma dagli ampi cortili. Tutto in quella caserma era speciale. Essendovi per ragioni di servizio ospitate molte famiglie, numerosissimi erano i bambini che la abitavano.
Perciò a chi fosse entrato dall’ingresso principale nel pomeriggio, dopo la scuola, si sarebbe presentato lo spettacolo quasi disneyano di una quantità di bambini sovrastante al primo impatto quella dei militari. A quei tempi infatti in ogni famiglia crescevano due o tre o quattro figli. I quali non avevano strumenti o congegni che li isolassero fisicamente dal mondo regalando loro l’illusione di essere lo stesso in compagnia. Cercavano invece luoghi fisici in cui trovarsi a giocare e parlare con i propri coetanei: i giardini, l’oratorio, la strada o il cortile.
E i cortili della caserma erano, per i fortunati che potevano beneficiarne, davvero il luogo ideale, anche per i genitori. Liberi, gratuiti, disponibili a ogni ora del giorno e per di più protetti. Sicché vi era tra i bambini che lì abitavano anche chi vi invitava i propri compagni del cuore. Per questo il bambino del nostro apologo appena finiva i compiti scendeva a giocare in cortile, dove con certezza avrebbe trovato un po’ di amici, normalmente dotati di una palla per imitare sui ciottoli le prodezze dei propri campioni e magari rompere ogni tanto (per sbaglio, si intende) i vetri dello scalone del colonnello.
Un giorno però uno di questi amici, uno dei più cari, fu inspiegabilmente sgarbato con lui e lo offese. Non sta scritto negli annali se ciò fosse accaduto per questioni calcistiche o scolastiche. Fatto sta che accadde.
Lui allora pronunciò lo storico ‘non gioco più’ e se ne andò arrabbiato verso casa. Ma, ripensando all’offesa che senza motivo aveva ricevuto, tornò di colpo indietro e si diresse di corsa, quasi con furia, verso l’amico che ormai guardava in altra direzione.
Proprio mentre gli stava giungendo alle spalle per aggredirlo spuntò però inaspettatamente da un cortile comunicante il suo papà in divisa. Che vedendo la scena, e intuendo gli attimi successivi, subito urlò arrabbiato il suo nome.
Il bambino, che aveva rispetto e anche timore del papà, si fermò subito provando un indistinto sentimento di vergogna; e andò verso di lui aspettando di esserne sgridato. Lo aveva colto o no mentre stava per mettere le mani addosso all’amico? Ma qui ebbe la sorpresa.
Il papà non lo sgridò per quello. Ma per un’altra ragione, che non gli sarebbe mai venuta in mente. “Non si colpisce mai nessuno alle spalle”, gli disse indignato; “questo”, aggiunse, “lo fanno i vigliacchi”.
Il bambino di caserma imparò una cosa in più, una di quelle che non si studiano a scuola, e che non avrebbe mai più dimenticato. Imparò un significato a lui prima sconosciuto della parola “vigliacco”, che fino a quel momento aveva voluto dire per lui “fifone” o “pauroso”. E a quella specie abbinò una ragione più profonda di spregevolezza.
Nei decenni successivi avrebbe scoperto ripetutamente quanto essa sia diffusa. Nella politica, nel lavoro, nelle amicizie, nelle associazioni, comprese quelle dispensatrici dei più nobili sentimenti. Non diceva d’altronde Giovanni Falcone che “la mafia un po’ ci rassomiglia”? Ah, gli apologhi…
P.S. Ogni riferimento a fatti effettivamente accaduti è puramente voluto.
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 02/12/2024
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