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Alla Rai «sceneggiate» senza regia

Vincenzo Vita il . Costituzione, Diritti, Economia, Informazione, Istituzioni, Lavoro, Politica

Per occuparsi della Rai è necessario fare finta di essere sani, per evocare un grande come Giorgio Gaber.

Se, infatti, dovessimo prendere sul serio la discussione in atto nell’universo politico, dovremmo chiudere qui e rinviare a tempi migliori. Tuttavia, è inevitabile rimetterci un occhio, trattandosi pur sempre del servizio pubblico radiotelevisivo.

Nell’età dell’intelligenza artificiale si rende urgente immaginare un «maestro Manzi» digitale, che faccia transitare l’Italia dall’attuale arretratezza nelle tecniche della produzione e del consumo a qualche soglia più decente. Infatti, se qualcosa è migliorato nella diffusione della banda larga e ultralarga, nelle culture specifiche siamo davvero nella zona bassa della classifica europea.

Insomma, qui starebbe una rinnovata missione dell’azienda, capace di riprendere -aggiornandolo con creatività e coraggio- lo spirito della riforma del 1975, stravolto via via dalla legge dell’ex ministro Gasparri del 2004 (il cui ventennale è stato curiosamente celebrato giorni fa al Senato, malgrado quel pasticcio sia unanimemente criticato) o -infine- dal testo voluto fortissimamente dall’allora Presidente del consiglio Matteo Renzi nel 2015, che riaffidò al governo il controllo della Rai.

Nelle ultime settimane si è ingaggiata una (finta) corrida tra la Lega di Salvini e Forza Italia, con un oggetto del contendere tanto vecchio e datato da apparire nient’altro che un gioco di potere. I citati contendenti, com’è noto, ambiscono a diventare il numero due della coalizione di maggioranza, per ottenere la seconda scelta nelle diuturne spartizioni di ruoli e scranni.

Perché è una sceneggiata, peraltro di infimo livello e senza regia? Si litiga sull’affollamento pubblicitario. Da scambiare con l’abbattimento di 20 euro del canone (da 90 euro a 70). Si sostiene che l’innalzamento degli attuali limiti posti agli spot porterebbe la Rai a togliere fette di mercato a Mediaset.

Proprio dalle voci berlusconiane emergerebbe al contrario l’idea di non toccare il canone della concorrente del vecchio duopolio. Simul stabunt, simul cadent. Chiunque abbia dimestichezza con i dati sa che l’artificiosa polemica si regge su una premessa sbagliata: il mondo della pubblicità della e nella televisione generalista fu vasto e tumultuoso fino a tre, quattro lustri or sono. Allora la contesa era dura e spietata, a suon di offerte scontate e di pacchetti sottratti agli altri protagonisti, nel frattempo cresciuti, a partire da La7.

Ora, siamo scesi (dati del 2023) a circa 3,600 miliardi di euro, mentre a metà degli anni Novanta del secolo scorso il comparto valeva il doppio. La tendenza è a scendere, meno delle inserzioni sulla carta stampata (in enorme crisi). La Rai è passata da 1,1 miliardi di quindici anni fa a 550-600 di oggi. Se venisse incrementato l’affollamento orario, il servizio pubblico, che già riempie le pregiate ore serali, dovrebbe saturare il resto della giornata riducendo così la sua funzione pubblica. Tra l’altro, da dove arriverebbero ulteriori investimenti?

Forza Italia si è opposta, insieme alle opposizioni, all’emendamento leghista teso ad abbassare la quota di canone prevista nel disegno di legge di bilancio e ugualmente sarà per un emendamento gemello volto ad aumentare di un punto l’affollamento.

Insomma, tanto rumore per nulla, mancando la materia prima. Del resto, il vento soffia verso la rete, che è oltre (e sale) il 50% del settore con oltre 4 miliardi di fatturato. Il futuro, al momento, è appannaggio delle Big Tech.

Tutto questo impone un serio ripensamento delle politiche comunicative, ricostruendo innanzitutto una valida industria dei contenuti, in cui proprio la Rai (magari con Cinecittà) assumerebbe una potenziale primazia.

Adesso, però, c’è un intralcio non dappoco: non si sblocca la vicenda della presidenza della Rai, che richiede una maggioranza qualificata in seno alla commissione parlamentare di vigilanza.

Chissà, se si arrivasse in tempi certi (e con una data precisa) alla riforma, in osservanza dell’European Media Freedom Act, il tema del/la Presidente si sdrammatizzerebbe.

Fonte: il manifesto

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