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Giudici che dispiacciono. Come liberarsene

Vladimiro Zagrebelsky * il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Migranti, Politica

La tentazione di liberarsi dei giudici che dispiacciono è irresistibile, anche se in linea di principio i governi non osano rifiutare la regola democratica della separazione dei poteri e magari sono pronti a rendere omaggio al principio fondamentale che, dalla fine del ‘700 in poi, in Europa dice che “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”.

Naturalmente il valore della separazione del potere giudiziario dall’Esecutivo e dal Legislativo è annullato se si pretende che i giudici si mettano in riga, deferenti verso il governo e le sue preferenze. Con la pretesa di fondarle sulla legittimazione elettorale della maggioranza parlamentare che regge il governo, si adottano però vie varie per forzare la separazione, quando questa confligge con l’orientamento e gli interessi politici governativi.

Non sempre però gli strumenti adottati si rivelano efficaci rispetto allo scopo. In ogni caso è utile metterne in luce le finalità e lasciarne la memoria. Anni orsono una Pretura siciliana aveva un grande impianto petrolchimico nel territorio di sua competenza. Il pretore si era intestardito ad applicare le leggi di tutela ambientale. Non potendo trasferire quel magistrato, dal ministero della giustizia venne un decreto che spostò da quella Pretura a quella confinante il Comune ove si trovava l’impianto. Durò poco, ma il caso è esemplare.

Oggi, soprattutto nella materia che riguarda i migranti, la tensione tra governo e magistratura è molto forte. Spesso essa si manifesta anche quando le sentenze vengono dalla Corte di cassazione. Ma ora un vero e proprio scontro contro la magistratura è stato scatenato dall’incontinenza verbale di esponenti governativi e riguarda le Sezioni specializzate nella materia nei Tribunali. Anche se non ha concluso il suo iter e non è divenuto legge, merita d’essere menzionato e commentato un tentativo di espellere da quelle procedure giudiziarie i giudici identificati come non in linea.

Si tratta di uno schema di decreto-legge portato in Consiglio dei ministri il 29 novembre 2024. Tra molto altro, una norma che riguardava la responsabilità disciplinare dei magistrati è entrata in Consiglio, ma non ne è uscita. Saggia resipiscenza? Vizi tecnici riconosciuti insuperabili? Conflitti tra ministri? Non si sa. Persino la conferenza stampa che solitamente segue le riunioni del Consiglio dei ministri è stata cancellata. Così il ministro della Giustizia, proponente, ha potuto sottrarsi al dovere di spiegare e informare. Forse, come vedremo, la ragione risiede nel fatto che è stata imboccata un’altra strada per ottenere lo scopo. Il decreto-legge conteneva una modifica alla legge sulla responsabilità disciplinare dei magistrati e considerava l’ipotesi in cui essi non si astengano quando la legge ne stabilisce l’obbligo o – questo era il nuovo – “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”.

La novità veniva presentata con una bugia nel preambolo del decreto. Si leggeva infatti che essa sarebbe stata resa necessaria dalla abrogazione dell’abuso di ufficio. Affermazione palesemente infondata, inventata per nascondere la vera ragione dell’intervento governativo. La pretestuosità del motivo richiamato è tra l’altro dimostrata dal fatto che il decreto-legge riguardava solo i magistrati ordinari e non anche il Consiglio di Stato, i TAR, la Corte dei Conti e tutti gli altri soggetti a cui la norma penale abolita si applicava.

Il vero movente invece è stato per settimane sotto gli occhi di tutti. Proclamato, promesso, minacciato da continue, virulente dichiarazioni da parte di esponenti governativi e della maggioranza, oltre che ripetuto dai media di area. Si trattava dello sdegno che quella parte politica manifestava per il fatto che alcuni giudici (delle Sezioni specializzate dei Tribunali) avevano deciso casi di convalida del trattenimento di migranti, adottando l’interpretazione delle norme che essi stessi avevano già sostenuto pubblicamente, prima delle singole procedure giudiziarie. Questo comportamento sarebbe illecito, frutto di parzialità politica da parte di magistrati, etichettati come “comunisti”, antagonisti del governo e della sua politica. Il decreto-legge nasceva con lo scopo di impedire simili fatti scandalosi, finora impuniti.

Tuttavia il provvedimento governativo non sarebbe caduto nel vuoto legislativo. La materia degli obblighi di astensione è molto delicata, trattandosi di eccezioni rispetto al dovere che i magistrati hanno di decidere le cause che sono loro assegnate. Stranamente l’intervento del governo ignorava le norme che sono e restano in vigore nella materia. Mentre il codice di procedura penale, nel caso di “gravi ragioni di convenienza”, già stabilisce l’obbligo di astensione da parte del magistrato (cui segue la responsabilità disciplinare), il codice di procedura civile ne indica solo la facoltà (il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi).

Quindi la facoltà e non l’obbligo resta proprio nelle cause che hanno scatenato la rabbia governativa. Nella materia del diritto dei migranti la procedura che i giudici devono seguire è infatti quella del codice di procedura civile. Una procedura che si presenta speciale e quindi prevalente, rispetto alla portata generale della norma disciplinare che con il decreto-legge veniva modificata. Non l’obbligo di astensione, ma la facoltà continuava ad essere stabilita.

Per dar spazio alla responsabilità disciplinare nel caso di omissione della astensione sarebbe bastato modificare l’art. 51 del Codice di procedura civile stabilendo anche in quella sede l’obbligo di astensione nel caso di “gravi ragioni di convenienza”. Sarebbe stata una modifica anche condivisibile perché avrebbe eliminato una differenza non giustificata rispetto al codice di procedura penale. Tanto più che il codice etico della magistratura in tutti i casi prevede che il magistrato valuti “con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità”. Sorprende quindi il tentato intervento normativo, fonte di incoerenze di sistema e di problemi interpretativi, capaci di impedirne comunque l’operatività rispetto all’intenzione governativa.

Il tema più delicato però era ed è quello centrale. Da cui lo schema di decreto-legge si teneva prudentemente a distanza. Esso riguarda il contenuto stesso da assegnare alla formula “gravi ragioni di convenienza”, di estrema ampiezza e genericità, legato ai casi concreti. E tali da escludere proprio il caso in cui il magistrato si sia in precedenza pronunciato sulla interpretazione delle leggi da applicare.

L’intenzione che muoveva la proposta di decreto-legge proprio a ciò si riferiva, nel contesto dell’attuale attacco ai giudici delle Sezioni di Tribunale specialmente competenti in materia di immigrazione. Contro l’avviso del governo questi giudici hanno rinviato le cause alla Corte di giustizia dell’Unione europea, perché dica se le norme italiane sono compatibili con l’obbligo di conformità alle norme europee applicabili.

Ciò che per la verità appare del tutto legittimo o addirittura necessario, ma che dispiace al governo perché – in attesa della sentenza che renderà la Corte di giustizia – impedisce tra l’altro l’operatività dell’accordo Italia-Albania. Stando al tenore delle accuse che sono state rivolte a quei giudici – di avere già dichiarato il loro orientamento interpretativo delle norme recentemente introdotte, prima di pronunciarsi nelle singole cause –, questo fatto costituirebbe una “grave ragione di convenienza”, tale da dar corpo ad illecito disciplinare. Ma così non può essere.

Pur con la prudenza da più fonti loro raccomandata, la libertà di espressione, garantita dalla Costituzione, è assicurata anche ai magistrati. Essi possono esprimersi liberamente, ed anzi dalla Corte europea dei diritti umani è venuta l’affermazione che, in materia di organizzazione e funzionamento della amministrazione della giustizia, vi è un obbligo per i magistrati di esprimersi, per contribuire al chiarimento dei termini dei problemi che il legislatore affronta e per difendere autonomia e indipendenza della magistratura.

E il fenomeno degli interventi dei magistrati nella discussione delle leggi è vastissimo, ben radicato da lungo tempo e specialmente importante proprio nei settori del diritto specialistico che essi praticano nei tribunali. Particolarmente quando si tratta di nuove leggi, la discussione organizzata dalle riviste giuridiche, generaliste o di settore, è animata anche dai magistrati. Essi si esprimono, propongono soluzioni, contribuiscono al progressivo emergere di indirizzi interpretativi condivisi: prima ancora che i procedimenti giudiziari approdino alle Corti di appello e poi alla Cassazione.

Si dovrebbero astenere poi dall’applicare le leggi che hanno commentato, spesso, utilmente? Che fine faranno le riviste giuridiche e gli incontri di studio che vengono organizzati specialmente subito dopo una nuova legge? E le relazioni e i dibattiti nei corsi della Scuola Superiore della Magistratura, in sede centrale o decentrata? Cosa delle iniziative più o meno formalizzate per la ricerca di orientamenti interpretativi condivisi e quindi prevedibili?

Sono domande che spiegano perché la specificazione della nozione di grave ragione di convenienza – funzionale allo scopo perseguito dal governo – non si leggeva nel testo del decreto-legge. Esso però, così come presentato, avrebbe comunque lasciato spazio al ministro per qualche azione disciplinare, fuoco d’artificio e dimostrazione muscolare opportunamente presentata alla stampa, anche se prima o poi destinata ad insuccesso.

Ma il ritiro del decreto-legge trova probabilmente spiegazione nel fatto che, lavorando su un altro provvedimento ora in Parlamento (il c.d. decreto flussi), il governo con più sicurezza e in un colpo solo si sbarazza di tutti i giudici attualmente competenti alla trattazione delle cause relative alla convalida dei provvedimenti di trattenimento dei migranti, alla proroga del trattenimento disposto dal questore nei confronti dei richiedenti protezione internazionale e alla convalida delle misure alternative al trattenimento.

Il mezzo usato è il trasferimento di tali cause dalla competenza dei Tribunali a quella delle Corti di appello. Che non si cerchi un rito più garantito come potrebbe essere il procedimento davanti alla Corte d’appello che è giudice collegiale è dimostrato dalla previsione che in questo caso il giudice sarà in formazione monocratica. La Corte d’appello diviene giudice monocratico di primo grado. Un Tribunale, cioè. E allora perché? Il governo cerca giudici diversi. Li crede più fidati? Imbarazzante per i giudici così prescelti come “giudici di fiducia”. Ma è prevedibile il fallimento dell’operazione: il diritto è quello che è e non cambia cambiando il giudice.

I presidenti di tutte le Corti di appello hanno protestato perché i loro uffici non sono in grado di reggere il nuovo grande carico di lavoro, negli stretti termini procedurali stabiliti dalla legge. Dovrebbe preoccuparsene il ministro della Giustizia, a cui la Costituzione assegna “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Ma sembra che si voglia comunque sottrarre, in un modo o nell’altro, la materia della immigrazione ai giudici ora competenti.

Si dice che, contro giudici riottosi, si tratta di assicurare la prevalenza della Politica, legittimata dal voto. A spese delle regole e garanzie dello Stato di diritto.

* Magistrato (dal 1965), Giudice della Corte europea dei diritti umani dal 2001 al 2010. Dirige il Laboratorio dei diritti Fondamentali (LDF) di Torino.

Fonte: Giustizia Insieme

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