Stereotipi
“Ma se una va vestita così, allora vuole essere guardata. È ovvio. Ma non le basta il ragazzo che ha accanto?”.
Se non ci fossero le conseguenze di cui poi leggiamo nella cronaca, questo discorso potrebbe anche aprire a uno spiraglio di tenerezza, quella tenerezza che si prova guardando chi non ha mai avuto nulla di proprio, nella vita, ma che ci spera. Uno che quando pensa di averlo, in maniera primordiale, cerca di difenderlo con le unghie e con i denti.
In queste parole maschiliste e possessive, che mi suonano nella mente da giorni – un discorso figlio di un patriarcato che avvolge indistintamente i ceti alti e quelli bassi della nostra società -, continuo a leggere il bisogno non soddisfatto di esclusività di molti di loro.
F. è seduto sul banco, la schiena poggiata al muro e una gamba che ciondola. Ascolta all’inizio un po’ distrattamente, ma appena chiedo loro cosa ne pensano della violenza sulle donne, si tira su e si infervora. Lo spiega subito: “Se ammazzi una che ti lascia sei malato, non sei un uomo – mi dice -, ma uno schiaffo certe volte ci sta”.
Snocciola la frase e la mia espressione cambia al ritmo delle parole. “Come fai a dire che lo schiaffo ci può stare?” – gli chiedo. Mi sembra assurdo sentirglielo dire. Mi aspettavo le espressioni scocciate, le risposte di facciata, ma lui mi restituisce l’onestà semplice delle sue convinzioni.
Resto interdetta, ma mi dico che io conosco questo ragazzo che mi sta davanti, lo conosco da più di due anni. So che è un buono, uno di quelli che fanno gli spacconi perché sono arrabbiati e non sanno come gestire la rabbia. Proprio questa ultima considerazione mi causa un brivido: non saper gestire le proprie emozioni, non saperle a volte nemmeno riconoscerle, può portare a commettere atti irreversibili.
Lui si porta le mani giunte davanti al viso nell’atto di chi ti deve ribadire una cosa ovvia, abbassa il tono della voce e dice: “A prof, ma se sei fidanzata con me, se sai che mi dà fastidio se gli altri ti rompono le scatole, perché te devi ostinà a metterti ‘na scollatura? Perché?”
“Forse perché mi piaccio così – rispondo – e non penso agli altri quando mi vesto”.
“Ma non lo fa’ se sai che poi i maschi non si regolano. Perché – replica lui – lo sai che poi non si regolano! E poi io devo fare qualcosa ”.
“Quindi il problema non è mio, ma dei maschi (e non degli uomini) che non sanno gestire le proprie pulsioni”, rispondo.
“Eh, sì, appunto! – si affretta convinto d’aver dimostrato l’ovvietà dell’affermazione. Ma un attimo dopo aggiunge: “Cioè, loro non si regolano, ma a te ti piace che ti guardano!”.
“E pure fosse? Pure fosse che mi piaccio e che mi piace essere guardata: qual è il problema?”, incalzo.
“E no, prof, no! Il problema c’è: perché ti dovrebbe bastare che ti guardo io! Sennò vuol dire che sei una… non mi fa’ dire cosa…”.
Scelgo di calcare la mano. Lo guardo e, sapendo che non lo lascerò indifferente, dico: “Tu sai che tua mamma è una bella donna. E sai anche che, ad esempio, ama vestirsi con abiti aderenti o corti. Allora: pensi che anche lei lo faccia per essere guardata?”.
“Non lo deve fa’ nemmeno lei!”, mi risponde secco. Poi salta giù dal banco, prende la sedia, si mette giù con la testa sulle braccia, come per dormire.
Non rispondo, ma lo guardo accennando un sorriso. So che F. mi ha fatto vedere il suo lato debole e so che in lui, adesso più che mai, si è aperta una crepa nelle sue convinzioni.
E una crepa si è aperta anche nei miei stereotipi. Quello che in nessun altra situazione avrei concesso – perché non mi stancherò mai di dire ai miei ragazzi che non possiamo giustificare frasi, silenzi, atteggiamenti prevaricanti o violenti in nessun caso – l’ho concesso a lui.
F. non mi stava facendo il fidanzato maschio-alfa, ma mi stava dicendo che aveva bisogno ancora dell’amore di una mamma “mamma”. Nel moto di stizza che ha avuto c’era la protesta del suo bambino interiore che diceva “Mamma è mia!”. È proprio vero che il rispetto per l’altro si insegna in famiglia fin da piccoli: per questo, allora, è importante che a essere rispettati siano i ruoli. Un bambino ha il diritto di poter essere bambino, di poter vivere la sua infanzia assaporando la certezza dell’amore assoluto dei genitori: quell’amore che gli consentirà di accettare serenamente un no da adulto.
Quanta paura si nasconde dietro certe frasi. Non vale per tutti, è ovvio. Ci sono ragazzi che mi hanno disgustato per la grettezza dei ragionamenti che replicavano facendo il verso a qualche rapper famoso o, peggio ancora, al padre. Altri, invece, mi hanno ricordato il rischio del cadere nella retorica o nella sfida di maschi contro femmine.
Però in quella classe tutta maschile, lunedì scorso, nessuno ha ironizzato o ha chiuso la discussione con una battuta. Nessuna illuminazione improvvisa: solo la condivisione, magari inconscia, di un sentimento.
Mi faccio bastare questo per aprirmi alla speranza e pensare che sono fortunata perché in questi ragazzi, da molti considerati gli ultimi, si vedono barlumi di umanità che molti non immaginano.
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