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Il dovere di comunicare

Donatella Stasio * il . Diritti, Giustizia, Informazione, Istituzioni, Politica

Pubblichiamo il testo integrale della relazione al Convegno internazionale La comunicazione giudiziaria nell’era dei nuovi media, svoltosi a Budapest il 21 e 22 novembre 2024 e organizzato da Res Iudicata, associazione dei giudici ungheresi, e dall’Università ungherese, dipartimento di giurisprudenza.

Non so se si dice anche qui in Ungheria, ma in Italia, per molto tempo si è detto – quasi fosse una parola d’ordine –: “I giudici parlano solo con le sentenze”. E oggi c’è qualche nostalgico di quell’adagio, al quale si vorrebbe dare addirittura forza cogente. Al di fuori di quel recinto, il giudice dovrebbe restare muto: anche se le sentenze vengono strumentalizzate e manipolate, lui deve tacere, non può replicare, spiegare, né rendere conto ai cittadini. Meno che mai può intervenire nel discorso pubblico su riforme in materia di giustizia, perché ciò offuscherebbe la sua imparzialità. Chi parla, quindi, rischia la sanzione disciplinare.

È un salto indietro nel tempo, agli anni ‘30 del secolo scorso. All’epoca del fascismo, il distacco del giudice dalla vita politica e sociale era un suo tratto essenziale, per ragioni, non tanto e non solo, di riserbo, quanto di sacralità e di legittimazione. Faceva parte dello status del magistrato essere chiuso in una Torre d’avorio, e la sua legittimazione dipendeva anche dall’essere apolitico, apatico, afasico. Il giudice non doveva interferire in alcun modo con la linea politica contingente e, più in generale, doveva mantenere la distanza dalla polis, dalla cittadinanza. Doveva avere una funzione quasi sacerdotale, al punto da magnificare persino il suo linguaggio rigidamente tecnico, spesso involuto, oscuro, ambiguo e infarcito di latinismi: può sembrare un paradosso, ma quanto più incomprensibile fosse stato il linguaggio del giudice, tanto maggiore sarebbe risultata la sua autorevolezza davanti ai cittadini.

Questa situazione si è protratta per moltissimi anni, anche dopo la caduta del fascismo, ed è stata quasi sempre giustificata con il dovere di riserbo, che doveva tenere i magistrati lontani dai riflettori mediatici. E tutti si adeguavano, bene o male, considerando il silenzio un segno di autorevolezza e di probità.

In quei decenni, il problema della comunicazione come “dovere” – dovere di spiegare, di rendere conto ai cittadini delle proprie decisioni – non si poneva proprio: c’erano giornali e Tv, quanto bastava per giustificare il silenzio dei giudici, persino quando i media – spesso megafono delle strumentalizzazioni politiche – distorcevano il senso delle loro decisioni. In questi casi, si aspettava comunque la pubblicazione delle motivazioni. A parlare erano solo e soltanto le sentenze. Ma intanto, nei cittadini si sedimentava la manipolazione politica e mediatica delle sentenze, soprattutto se sgradite al potere politico.

Tutto questo è durato più o meno fino a metà degli anni ‘60 ed era considerato una garanzia, come già detto, di apoliticità dei magistrati (nel senso affermatosi durante il fascismo, cioè di sostanziale acquiescenza alla linea politica del governo in carica).

A metà degli anni 60 cambia tutto. E al cambiamento – bisogna darne atto – ha contribuito molto la nascita di un gruppo associativo – Magistratura democratica – che si aggiunge a quelli dell’Associazione nazionale magistrati e si contraddistingue subito come magistratura “eretica”, impegnata ad abbattere i tabù del passato a cominciare dalla distanza del magistrato dai conflitti politici e sociali.

I magistrati cominciano a prendere sul serio la Costituzione.

Quindi, cominciano a interpretare le leggi e il proprio ruolo di magistrati secondo la Costituzione. E il silenzio non è più un imperativo categorico.

C’è una data che fa da spartiacque, settembre 1965, quando a Gardone si svolge il XII Congresso dell’Anm. Lì viene approvata, all’unanimità, una mozione secondo cui il ruolo dei magistrati non è più quello di amministrare giustizia chiusi in una Torre d’Avorio, da cui dispensare sentenze scritte con un linguaggio comprensibile solo a un’élite di tecnici; ma, al contrario, è stare dentro la società, avere un ruolo sociale (come diceva uno dei padri della Costituzione, Piero Calamandrei, che era avvocato ed era di cultura liberale), garantire i principi affermati nella Costituzione, anche “contro” le politiche del governo di turno, se vanno in direzione opposta alla Costituzione. È la cosiddetta “funzione contromaggioritaria” propria di tutti gli organi di garanzia (Corti costituzionali e giudici indipendenti) nati nel secondo dopoguerra proprio come “limite” agli eventuali sconfinamenti del potere politico, e a tutela del pluralismo e dei diritti delle minoranze. Una funzione indispensabile in una democrazia costituzionale, dove non esistono poteri assoluti, ma che spesso – troppo spesso, purtroppo – è mal tollerata dai governi, e vissuta, o spacciata, come “opposizione politica”.

È stata una svolta storica, quella di Gardone, perché lì nasce l’idea del magistrato democratico, nel senso di “coscienza democratica”, di quella “democrazia costituzionale” nata appunto dopo la guerra e fondata sui principi dello Stato di diritto. Un giudice che, per dirla sempre con Calamandrei, non fosse un burocrate “bocca della legge”, un essere inanimato, una macchina sillogizzante – oggi diremmo un algoritmo – ma piuttosto un “giudice con l’anima”, capace di affrontare con indipendenza l’immane responsabilità del giudicare.

Da qui anche il dovere di rendere conto ai cittadini, di spiegare, di far conoscere, e anche di partecipare al discorso pubblico, non meno importante del dovere di riserbo. Da qui, la messa al bando del silenzio, e dell’ipocrisia del silenzio.

La strada, però, sarà tutt’altro che in discesa, come dimostra la storia, fino ai nostri giorni.

Emblematica la vicenda di un giudice, che voglio raccontarvi.

Era il 1971 e in Italia ancora esistevano le Preture, poi abolite. A Firenze si celebrava un processo per appropriazione indebita: un’anziana signora, bisognosa di soldi per le sue esigenze quotidiane, aveva deciso di vendere un oggetto prezioso, e si era rivolta a un vicino di casa che le aveva assicurato di venderlo a condizioni vantaggiose. Passarono mesi, un anno e, nonostante le domande, le sollecitazioni, le rassicurazioni, alla fine la signora si stancò e volle indietro il suo oggetto, ma il vicino di casa (com’era prevedibile) le rispose di non averlo più. Dopo giorni di litigi, la signora decise di querelarlo ma erano trascorsi già due anni dall’inizio della storia.

Due anni erano il tempo della prescrizione del reato, per cui il pretore di quel processo fu costretto a dichiarare «improcedibile l’azione penale per intempestività della querela». Così disse, leggendo il dispositivo. La donna lo ascoltò impietrita, muta, incredula. E mentre il giudice si toglieva la toga, gli si avvicinò e, agitando in alto la mano, cominciò a protestare. Subito un carabiniere l’allontanò ma il giudice rimase così colpito dallo sfogo della donna che, da quel momento, cominciò a spiegare ai cittadini comuni le fredde e oscure parole del diritto usate nei suoi verdetti.

Poco dopo gli capitò un processo per violazione degli obblighi familiari e lui – il giudice – decise di spiegare che l’assoluzione dell’imputato dipendeva essenzialmente dalla scarsa credibilità dei testimoni. Le parti e i difensori ascoltarono la spiegazione in silenzio e in silenzio uscirono dall’aula.

La notizia del pretore che spiegava le sentenze durante le udienze cominciò a diffondersi e venne accettata. Salvo che dai magistrati, alcuni dei quali vedevano in quel comportamento una caduta di sacralità dell’immagine del giudice, una rottura del linguaggio formale del diritto, un’inutile interferenza nei compiti dell’avvocato – che deve incaricarsi, lui, di spiegare al cliente o assistito – e anche dei media – che devono spiegare, loro, all’opinione pubblica il succo di una decisione.

Il non detto, però, era politico: quel pretore, in realtà, aveva rotto il tabù del silenzio dei giudici e della distanza dai cittadini.

Ecco perché, di fronte a queste “comunicazioni pubbliche”, un bel giorno il nostro pretore venne convocato dal Procuratore generale che gli fece una ramanzina sulla violazione del codice (anche se non fu in grado di dire quale fosse la norma violata) e sul dovere del giudice di non dire una parola in più o in meno di quella che sta scritta nella legge. «Il giurista – gli disse il Procuratore generale – è quello che sa capire lo spirito delle norme e non ci aggiunge nulla di suo. E se il legislatore non ha previsto che si dovesse spiegare un bel nulla, tu non puoi sostituirti al legislatore…».

Naturalmente, prima di congedarlo, il Procuratore lo avvertì anche che avrebbe dovuto informare dell’accaduto il titolare dell’azione disciplinare. Il quale avviò l’istruttoria ma, fortunatamente, ebbe il buon senso, l’intelligenza, e la forza di archiviare il caso.

Il cambiamento cominciava a farsi sentire.

Per inciso, vorrei ricordare che, in Italia, solo con il Codice del 1988 è stato possibile leggere pubblicamente in udienza, dopo il dispositivo, anche una concisa motivazione della sentenza, là dove possibile scriverla in tempo reale. Norma quasi sempre disapplicata – per numerose, diverse e spesso buone ragioni – tant’è che la motivazione arriva, nella stragrande maggioranza dei casi, 30, 60 o 90 giorni dopo il verdetto, anche quando la spiegazione potrebbe essere semplice.

La verità è che non fa parte del costume giudiziario – neppure ora che siamo nel terzo millennio – farsi carico dell’esigenza – collettiva oltre che delle parti – di spiegare subito le ragioni della decisione, e quando ciò accade, viene visto con sospetto. Tutto è rimandato alla motivazione, redatta con un linguaggio tecnico e perciò comprensibile solo ai difensori delle parti, ai giuristi interessati e forse ai giornalisti (che, per capirla, spesso se la fanno spiegare dagli avvocati e dai giuristi interessati). Nessuna comunicazione diretta ai cittadini. E ciò, sebbene le decisioni siano prese «nel nome del popolo italiano».

E ora facciamo un salto ai nostri giorni.

Le cose sono un po’ cambiate, non senza difficoltà. Nonostante la strada fatta per far entrare la comunicazione nella cultura della giurisdizione, le resistenze, dentro e fuori la magistratura, ma soprattutto politiche, sono ancora forti. Un giudice che spieghi direttamente le sue decisioni con un linguaggio semplice, che parli e che corregga interpretazioni distorte, se non malevoli e strumentali, un giudice che faccia valere la propria esperienza nel discorso pubblico sulle riforme in materia di giustizia, è un giudice che fa paura. Anzitutto alla politica, che cerca quindi “imbavagliarlo” e di intimidirlo, al netto dell’uso che i giudici facciano in concreto della comunicazione, un uso non sempre corretto, questo va detto. Invece di puntare a migliorare la comunicazione sul piano tecnico, culturale, lessicale, etico, la reazione difensiva è il “bavaglio”. E ora anche la minaccia di sanzioni disciplinari.

Faccio la giornalista da 40 anni, e, almeno dal 2010, mi sono occupata della “comunicazione della Giustizia sulla Giustizia”, non solo sui media ma anche su riviste specializzate e in sedi istituzionali, come il Csm e la Scuola della magistratura.

Il racconto del giudice che vi ho fatto prima (il suo nome è Beniamino Deidda, ormai in pensione) è stato raccolto proprio in occasione di uno dei numerosi corsi sulla comunicazione, in cui sono stata talvolta relatrice talvolta “esperta formatrice”. Ed è anche alla luce di queste esperienze – oltre che di quelle vissute sul campo, come giornalista – che ho maturato la convinzione di un vero e proprio “dovere istituzionale” di comunicare da parte della giurisdizione, naturalmente in forme, modi, tempi diversi a seconda dei diversi aspetti della giurisdizione. Che, come sappiamo, è funzione, potere, servizio, associazionismo. Perciò, a ciascuna di queste diverse dimensioni corrispondono diverse modalità di comunicazione.

Dopo quelle esperienze, ne ho fatta un’altra, importantissima, perché “dentro” la giurisdizione, in particolare dentro quella costituzionale.

Per cinque anni – dal 2017 al 2022 – sono stata la responsabile della comunicazione della Corte costituzionale, con ben sei presidenti, e in quel lustro ho cercato di mettere in pratica i risultati della mia riflessione, di misurarne la fattibilità e l’impatto.

La Corte è “uscita dal palazzo” per parlare, non “alla” società, ma “con” la società, in una relazione di scambio di saperi, di esperienze, e anche di emozioni. Ha cercato di declinare il “dovere di comunicare” attraverso tutti gli strumenti che lo sviluppo delle tecnologie mette a disposizione (comunicati, conferenze stampa, interviste, podcast, app, profili social, sito web, viaggi nelle scuole e nelle carceri, mostre fotografiche, film e persino concerti). Una comunicazione multimediale, accessibile a tutti, tempestiva, accogliente. Necessaria per “farsi conoscere” ma anche per “conoscere”, e quindi per arricchire la propria giurisprudenza. Una comunicazione fondamentale per rendere conto subito delle decisioni adottate, anche prima del deposito delle motivazioni se si tratta di decisioni di particolare interesse pubblico e se c’è il rischio concreto, nel silenzio, di manipolazioni e strumentalizzazioni, soprattutto politiche (è della scorsa settimana l’importante comunicato stampa della Corte che anticipa la decisione, non ancora depositata, sull’autonomia differenziata delle regioni, una delle riforme più delicate approvata dalla maggioranza di governo ma travolta da numerose censure di costituzionalità da parte della Corte). Una comunicazione indispensabile anche per promuovere la cultura costituzionale e contribuire a migliorare il discorso pubblico ma soprattutto a costruire, nel cantiere della società civile, quella “mentalità costituzionale” – così la chiamava Paolo Grossi, il primo dei sei presidenti che ho avuto l’onore di seguire – necessaria per poter arginare i tentativi di erosione della democrazia costituzionale, e soprattutto per “vederli arrivare”, questi tentativi, prima che sia troppo tardi.

Questo vale per le democrazie mature, come dovrebbe essere quella italiana, nonostante le sue fragilità evidenti, ma vale a maggior ragione per le democrazie più giovani.

La Corte costituzionale ha cominciato a comunicare con la società civile sicuramente più e prima della magistratura ordinaria.

In un piccolo saggio scritto nel 2018 per la rivista Questione giustizia e non a caso intitolato Il senso della Corte per la comunicazione, spiego appunto che fin dalla sua nascita, nel 1956, la Corte decide di aprire un canale con la società civile, seppure attraverso la stampa, per far conoscere le proprie decisioni, e anche se stessa come istituzione di garanzia. Non dimentichiamo che la Corte italiana è diventata operativa con ben 8 anni di ritardo rispetto all’entrata in vigore della Costituzione a causa delle resistenze politiche, trasversali a tutti i partiti, nei confronti di un organo di garanzia così necessario (dopo l’esperienza tragica del potere assoluto esercitato dal nazifascismo), ma anche così potente (le Corti costituzionali possono cancellare, senza appello, le leggi approvate dai Parlamenti pur non essendo elette dal popolo, e devono essere assolutamente indipendenti).

Nonostante quest’apertura all’esterno, nel corso degli anni la Corte ha però comunicato in modo intermittente e ondivago, mai con la consapevolezza che comunicare fosse un “dovere”. Questa consapevolezza matura, invece, proprio nei cinque anni del mio lavoro alla Corte, durante i quali la comunicazione cambia passo (di quei cinque anni, per certi versi epocali, l’ex presidente della Corte Giuliano Amato ed io abbiamo voluto lasciare una testimonianza, in forma di racconto, con un libro uscito l’anno scorso e intitolato “Storie di diritti e di democrazia – La Corte costituzionale nella società”, edito da Feltrinelli).

Comunicare significa “mettere in comune”. Quindi non è (solo) una tecnica: è un’etica, una postura, una responsabilità. Per le istituzioni, anche un dovere. L’idea che istituzioni terze e imparziali debbano stare lontane dalla gente, chiuse nella Torre d’avorio, non solo è anacronistica ma è anche antidemocratica. Chiunque abbia a cuore i principi delle democrazie costituzionali e dello stato di diritto non può volere giudici muti e imbavagliati, che parlino con il linguaggio tecnico delle sentenze, ma ha il diritto di capire e di pretendere una spiegazione. E chiunque ricopra un ruolo istituzionale ha il dovere di parlare in modo comprensibile a tutti e di spiegare. Dovere dell’istituzione, diritto del cittadino.

In una democrazia non esiste il rispetto sacrale. Il rispetto non nasce dall’imposizione ma dalla convinzione, e quindi dalla comprensione. Questo non significa che dobbiamo essere sempre d’accordo con quanto decidono i giudici (ordinari e costituzionali) ma dobbiamo anzitutto capire che cosa fanno e decidono, dobbiamo essere messi nella condizione di formarci un’opinione autonoma, anche critica, purché non al traino di questo o quel giornale, di questo o quel social media, di questa o quella forza politica o economica.

Comunicare, spiegare, rendere conto sono, quindi, un dovere fondamentale delle istituzioni di garanzia che, con il loro potere, incidono nella vita delle persone, fino a cambiarla profondamente. Questo vale in particolare per le Corti costituzionali, chiamate, peraltro, sempre più spesso, a risolvere i cosiddetti “casi difficili” (fine vita, aborto, maternità surrogata, diritti delle coppie gay, identità di genere e così via), sui quali il dibattito pubblico e politico è sempre più polarizzato in tutto il mondo. Le Corti sono costrette a colmare i vuoti di tutela lasciati scoperti dai Parlamenti polarizzati; devono tutelare i diritti fondamentali negati dai Parlamenti ostaggio di maggioranze politiche numericamente molto forti e insofferenti al pluralismo; non possono decidere di non decidere. Ecco allora che, in questi casi, i giudici costituzionali (ma anche ordinari) diventano bersaglio di critiche anche violente, a cominciare da quella di politicizzazione: non hanno legittimazione popolare, si dice spesso, perché nessuno li ha eletti, quindi stiano al loro posto, che è quello di non infastidire la maggioranza di governo. Critiche che portano alla loro delegittimazione e poi al loro indebolimento e infine alla loro normalizzazione, o modificandone la composizione, così da renderla più allineata al potere politico di turno, oppure riducendone i poteri.

E allora chiedo: come si fa, in questi casi, a non difendersi dalle strategie delegittimanti del potere politico, e a tacere? I cittadini, la democrazia, hanno bisogno di sentire anche la voce degli organi di garanzia.

Tanto più che gli organi di garanzia sono i primi bersagli (seguiti dalla stampa libera) delle cosiddette regressioni democratiche in atto nel mondo, proprio perché tanti governi “democraticamente eletti” sono insofferenti alla loro funzione di limite al potere e di garanzia dei diritti delle minoranze. L’ultimo caso di regressione, in ordine cronologico, lo abbiamo visto in Messico ma il Rapporto 2024 di Freedom House ci dice che oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in paesi che possono considerarsi davvero liberi e democratici, e che, solo nell’ultimo anno, ben 60 paesi sono scivolati verso regimi autoritari a fronte di soli 39 nuovi regimi democratici.

La sfida della nostra epoca, quindi, è proprio quella di arginare le regressioni democratiche. E per farlo bisogna essere in grado di vederle arrivare, fin dai primissimi passi. Ma per vederle arrivare bisogna saper cogliere le connessioni tra potere, diritti e democrazia. Perciò è necessario promuovere l’alfabetizzazione costituzionale.

La democrazia non si rafforza imbavagliando le Corti e i giudici indipendenti (e tanto meno la stampa libera). Anzi. La comunicazione degli organi di garanzia è funzionale alla crescita dell’alfabetizzazione costituzionale dei popoli e al radicamento dei principi dello stato di diritto. Creare nei cittadini la consapevolezza dei propri diritti e del ruolo di garanzia delle Corti e dei giudici è l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche, a difesa delle nostre libertà fondamentali. Ed è un compito che spetta a tutti: accademia, stampa, politica, cittadini, giudici, Corti costituzionali (che, non a caso, in molte parti del mondo, sono scese in campo per farsi conoscere).

Ma una delle prime cose da spiegare all’opinione pubblica è che cosa significa “ruolo di garanzia” dei giudici, ordinari e costituzionali. Bisogna spiegare che quel ruolo è stato previsto non “a garanzia” dei governi di turno e di chi esercita il potere, ma “a garanzia” delle minoranze, del pluralismo e di chi il potere non ce l’ha. Questa è stata una grande conquista delle democrazie costituzionali, ma, purtroppo, la gente non lo sa e si lascia confondere da chi ha un’altra idea di democrazia e perciò delegittima i giudici proprio quando esercitano fino in fondo il loro ruolo di garanzia dei diritti di tutti.

D’altra parte, i diritti, per esistere, devono vivere anzitutto nella coscienza delle persone alle quali sono negati (oltre che ad entrare nella coscienza delle persone che li negano). Questa coscienza è la leva per farli valere, seppure con i loro limiti (visto che non esistono diritti assoluti o tiranni, tranne il diritto al rispetto della dignità umana). Quando questa coscienza esiste e quando abbraccia anche il ruolo che giocano istituzioni di garanzia forti e indipendenti, allora le Corti, e i giudici, possono svolgere il loro lavoro con passo sicuro, sentendosi difesi anche contro le pressioni politiche. Naturalmente, la difesa di Corti e giudici, deve andare di pari passo con la vigilanza su Corti e giudici, affinché svolgano il loro ruolo di “garanti” con responsabilità e imparzialità, ma senza mai piegarsi o rimpicciolirsi di fronte alle pressioni del potere politico. Piegarsi significa rinunciare alla tutela dei diritti fondamentali di ognuno di noi. Significa rinunciare ai principi dello stato costituzionale di diritto.

* Giornalista

Fonte: Questione Giustizia

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