La tutela della nostra Costituzione e il bisogno di una “Costituzione europea”
Un dialogo con Giovanni Maria Flick, a partire dal suo ultimo libro “Un patto per il futuro. Dalla sopravvivenza alla convivenza” (Il Sole24ore Milano, 2024)
L’ultimo libro di Giovanni Flick, già magistrato, accademico, ministro della giustizia e giudice della Corte costituzionale, attualmente anche presidente del Comitato nazionale per il Sì al referendum per l’abrogazione della Legge sull’autonomia differenziata, sin dal titolo rivela l’ambizione che lo ha ispirato. Dalle difficoltà e dalle incognite del presente («l’angoscioso presente», come si dice in premessa), si traccia il senso di marcia verso un orizzonte che, a tratti, sembra ormai perduto: quello di una convivenza sociale che non lasci indietro nessuno, capace di raccogliere i frutti di una positiva sinergia tra la transizione ecologica e quella tecnologica. Le tante suggestioni ispirate dalla lettura suscitano ulteriori, necessari interrogativi, che abbiamo voluto condividere proprio con l’Autore, a cui vanno i ringraziamenti di Questione giustizia.
Presidente Flick, quello che innanzitutto colpisce è la forza di un pensiero rivolto limpidamente al futuro, alla sorte delle future generazioni, un orizzonte nuovo a cui sembra guardare la fanciulla ritratta in copertina. Malgrado la cupezza dei tempi che stiamo vivendo, e le difficoltà nell’immaginare, specie per il giurista, che in questa fase il diritto – per primo il diritto internazionale – riesca ad affermarsi, vi è ancora spazio e materia per un pensiero progettuale, e quindi, ottimista…
Ho voluto contrapporre lo sguardo della speranza e dell’ottimismo (espresso dagli occhi della mia terza figlia nel ritratto realizzato da sua madre, in copertina del libro) a quello dei bambini di fronte alla guerra: uno sguardo di paura del bambino polacco a fianco della SS impassibile che lo accompagna alla camera a gas con gli altri ebrei; uno sguardo di terrore della bambina vietnamita che fugge davanti alle fiamme e al napalm; uno sguardo di rassegnazione incredula del bambino ceceno sotto il mitra del terrorista.
Sono sguardi che si spengono nel vuoto dell’assenza di sguardo del bambino sulla spiaggia turca, vittima del naufragio di un barcone di migranti; una assenza che preannunzia quella dei bambini morti nella “guerra di Gaza”, una strage degli innocenti di biblica memoria che si è consumata sotto gli occhi della diplomazia, della informazione e di noi tutti, in realtà indifferenti nonostante le reazioni verbali.
Mi è tornata alla mente l’immagine del girotondo festoso dei bambini nel cortile della scuola di Sant’Anna di Stazzema (sulla copertina del libro-denunzia di Franco Giustolisi L’armadio della vergogna) all’inizio delle vacanze estive nell’estate del 1944; un girotondo interrotto due mesi dopo spegnendo lo sguardo di quei bambini nella strage realizzata con una freddezza e una crudeltà allucinanti dai nazisti e dai loro collaboratori per contrastare la Resistenza partigiana a locale.
Deve esserci un progetto e una speranza di futuro, come ricorda Papa Francesco nella affermazione che «la speranza non delude mai» del suo messaggio per l’apertura dell’anno giubilare.
Ecco perché, di fronte agli interrogativi del percorso difficile che si preannunzia per una transizione ecologica e tecnologica, entrambe urgenti; di fronte al divampare della guerra, anzi delle guerre e delle minacce che le accompagnano, per trovare qualche barlume di speranza occorre ritornare allo sguardo dei bambini e cercare con ogni mezzo di non spegnerlo.
È l’augurio di speranza che mi sento di intuire e di rilanciare come contributo personale ad un difficile percorso europeo che – senza trascurare i suoi numerosi problemi politici, economici e sociali e le moltissime preoccupazioni che essi propongono – cerca di proseguire il «difficile pellegrinaggio verso un mondo migliore» proposto da Papa Francesco per l’anno giubilare come messaggio di buona volontà.
Fa riflettere, per vero, che lo strumento giuridico su cui principalmente si appuntano le sue riflessioni, Presidente Flick, siano due articoli della Costituzione, nei testi riformati di recente, con la legge costituzionale n. 1 del 2022, che ha modificato gli articoli 9 e 41 della Costituzione riconoscendo un espresso rilievo alla tutela dell’ambiente sia nella parte dedicata ai Principi fondamentali, sia tra le previsioni della Costituzione economica. Una riforma che mette in relazione l’azione dei pubblici poteri, in particolare per ciò che riguarda la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, con l’interesse delle future generazioni. In realtà, è per loro, per i giovani di oggi che la battaglia va condotta, perché possano avere un domani. Lei crede che queste modifiche al testo costituzionale possano davvero rappresentare ulteriormente una “stella polare” che orienti e selezioni le politiche dei governi, insieme con le altre linee di azione già esplicitate nella Carta, la promozione dello sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica? Non teme il prevalere di questo crescente oscurantismo, che poi si traduce nel negazionismo ostentato anche dalla politica – a livello globale – e nella sostanziale indisponibilità delle società a capitalismo avanzato di limitare i propri consumi? Non teme che il tutto non produca altro che quel «bla bla bla» denunciato da Greta Thunberg, e da lei anche citato nel testo?
Lo strumento giuridico che mi sembra opportuno per il percorso di speranza in un orizzonte di pessimismo è la recente riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione nel 2022. È passata sotto silenzio nell’indifferenza generale, in contrapposizione ad altri progetti di riforma costituzionale – ad avviso mio e di molti altri non condivisibili – che sono in discussione in questo periodo.
Sono progetti suddivisi tra le forze politiche di maggioranza che li propongono, in tre campi. Sono in primo luogo il potenziamento del premierato al vertice dello Stato attraverso l’elezione popolare del Presidente del Consiglio e l’indebolimento del ruolo del Presidente della Repubblica. In secondo luogo, la frammentazione del tessuto territoriale delle regioni alla base, attraverso la c.d. autonomia differenziata nei termini della riforma recentemente approvata e seguita dalla richiesta di un referendum abrogativo. In terzo luogo, la riforma sotto diversi aspetti dell’ordinamento giudiziario a cominciare dal mito della “separazione delle carriere”.
Non intendo entrare nel dibattito esasperato su questi tre temi. Rilevo soltanto che essi sono fra loro sinergicamente connessi. Si rinforzano a vicenda e compongono un mosaico da cui l’immagine costituzionale del nostro Paese esce profondamente modificata.
Credo che la riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione – anche per contrastare gli effetti della sinergia tra le tre prospettive di una ben diversa riforma costituzionale dianzi accennata – vada valutata in una prospettiva unitaria. È la prospettiva di considerare la riforma del 2022 come il riconoscimento che lo “sviluppo sostenibile” – tanto elaborato e discusso a livello mondiale europeo e nazionale – sia in questo modo entrato con esso esplicitamente nel perimetro dei “principi fondamentali” proposti dalla Costituzione. È una premessa alle due parti di essa dedicate rispettivamente ai diritti e doveri dei cittadini e all’ordinamento della Repubblica.
Non mi sembra questo un semplice problema di sistemazione astratta o di curiosità stilistica. È invece il risultato del percorso che ha segnato la via della Costituzione nella tutela dell’ambiente e della cultura.
Da un’originaria impostazione dell’articolo 9 in una sorta di prospettiva dal passato (la tutela del patrimonio storico e artistico) al presente (la tutela del paesaggio) – attraverso lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica – si segna il passaggio a una nuova prospettiva verso il futuro, attraverso il richiamo esplicito alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e dell’ecosistema nell’interesse delle future generazioni.
Ecco perché non si deve “spegnere” lo sguardo dei bambini che non accetta la guerra e per cercare nello “sviluppo sostenibile” una delle ragioni e un fine per contrastare l’oscurantismo; la logica “ottusa ma potente” della alleanza tra profitto e potere; il negazionismo e il sovranismo che sono frutti perversi di uno “sviluppo sostenibile” solo per gli oligarchi della tecnologia o dell’autocrazia e non invece per le comunità umane e per tutti e ciascuno i loro componenti.
Lo sviluppo del suo ragionamento la porta poi, tra l’altro, a riflettere sugli effetti negativi della pandemia sulla cultura, il suo patrimonio, le sue necessità e i suoi problemi, effetti la cui mancata rimozione – non diversamente dal silenzio e dalla scarsa attenzione sui problemi della scuola e della giustizia – sono la testimonianza evidente dell’indifferenza di fronte ad una risorsa essenziale per la partecipazione e l’inclusione sociale. Sostiene essere ormai acquisita la consapevolezza che il patrimonio archeologico e quello storico – artistico sono patrimoni globali e beni dell’umanità al pari del patrimonio ambientale: «La geopolitica del bene comune è tale perché è comune a tutti il bisogno di estetica, di bellezza, di paesaggio, di ambiente». È dunque tempo per dare nuovo vigore alla riflessione sui beni comuni, perché la politica imprima una nuova forza alla sua azione in questo senso? Lei giustamente ricorda il modello classico di bene comune, l’acqua, diritto fondamentale ed insostituibile, che però, nonostante l’affermazione di principio, è sempre più oggetto di contesa commerciale, da un lato, dall’altro resta elemento che si sottrae alla pretesa umana di dominare la natura, nell’alternanza drammatica di siccità e alluvioni determinate spesso dalla cementificazione del territorio, e dallo stesso cambiamento climatico che causa sempre più frequentemente fenomeni meteorologici estremi. Un cerchio che non si interrompe, e che in risposta richiede strategie complessive, dalla politica prima di tutto, capace di liberarsi del predominio dell’economia e della legge del profitto.
Il “distanziamento sociale” predicato come rimedio contro il contagio della pandemia non mi sembra accettabile già nella sua formulazione letterale. Al di là delle precauzioni igienico-sanitarie per evitare i contatti insalubri e pericolosi, esso evoca una sorta di cautela e ostilità verso l’ascensore sociale come strumento di eguaglianza e di superamento dell’esclusione del “diverso”.
Esso è l’esatto contrario del sovraffollamento carcerario nel quale i “diversi” detenuti sono esposti al contagio: tranne i “privilegiati” ristretti con il famigerato art. 41bis dell’ordinamento penitenziario che grazie all’isolamento coatto evitano a caro prezzo il rischio del contagio.
La nuova attenzione verso i beni comuni è la via per aprire il loro accesso a tutti. L’acqua è emblematica in questa prospettiva. Bene comune per definizione perché essenziale per la vita di ciascuno e di tutti, essa diventa bene economico grazie alla sua scarsità indotta dalla manipolazione umana e artificiosa per renderla apprezzabile economicamente e sottoporla quindi a balzelli e corrispettivi.
D’altronde v’è da temere in un futuro non lontano la sostituzione della guerra per l’acqua a quella per il petrolio, dopo averla trasformata in un bene raro e quindi economicamente prezioso. È una palese contraddizione con lo spreco di acqua nella alternativa forzata tra siccità e alluvioni (troppa acqua o troppo poca) in un territorio deforestato su larga scala e cementificato per ragioni economiche di profitto. Entrambe queste ultime hanno spinto a “tombare” i fiumi dimenticando la possibilità o la probabilità che si verifichi il contrario con il tombamento dell’uomo da parte dei fiumi e lo scioglimento dei ghiacciai, in una sorta di nemesi storica e di vendetta della natura.
Concludendo (per modo di dire) su questo punto, credo anche io come lei, che la scarsa attenzione sui problemi della scuola e della giustizia siano espressione di disattenzione e di indifferenza nel clima che ho cercato dianzi di richiamare: il disinteresse ai i problemi della giustizia, se non quando vengono enfatizzati per l’attenzione che sollevano e per la strumentalizzazione che se ne può ricavare.
Altrimenti e comunque, quando è scemata l’attenzione va bene che i problemi della giustizia e della scuola ritornino alle liti fra tecnici e alla loro incomprensibilità da parte della gente. In fondo le conseguenze della DAD (didattica a distanza) per le scuole e quelle della lunghezza dei processi, della desolazione nelle carceri e della sequenza drammatica dei suicidi di detenuti e di agenti di custodia per la giustizia si vedono soltanto dopo. Rientrano in una routine rassegnata. Non confluiscono con immediatezza negli indici del PIL o nelle statistiche dei mercati e delle borse.
Tra i tanti spunti di riflessione, non possiamo qui ignorare il tema dell’intelligenza artificiale, e della sua applicazione nel campo della giustizia, a cui il suo libro dedica un intero capitolo. Partendo dalla constatazione della crisi della giustizia (sulla cui portata, sulle sue cause, ed anche sulla narrazione che ne viene fatta, ci sarebbero ovviamente molte cose da dire) lei arriva icasticamente a delineare il possibile conflitto, in un futuro non troppo remoto, tra giudice–uomo e giudice–robot: il rischio diventa quello di azzerare il conflitto «tra norma giuridica e regola algoritmica; tra integrazione e conservazione di quanto è noto per l’esperienza passata e per la conoscenza acquisita dal giudice e quanto invece è stato registrato dalla macchina». Il bilancio è ancora dunque a favore della “giustizia degli uomini”? Fino a quando?
Fino a quando durerà il conflitto tra il giudice-uomo e il giudice-robot? Forse fino a quando vincerà l’uno o l’altro dei due. O vincerà il robot, annullando nella pigrizia dell’uomo di fronte al lavoro svolto dalla macchina la tensione morale che nasce (o dovrebbe nascere) dalla “riserva di umanità” e dalla differenza tra l’errore umano e il bias dell’algoritmo. O forse vincerà il giudice-uomo quando avrà la forza di reagire al fascino di quella pigrizia e di tutte le arti seduttive impiegate dalle macchine e da chi le ha inventate per addormentare e rendere insensibile il giudice con la sua dignità.
L’unica o la più realistica arma per vincere la soggezione all’inerzia è probabilmente la capacità di puntare sulle differenze, sulla cultura, sulla ricerca di un particolare che consenta di salvaguardare la propria identità nelle differenze degli altri. Per restare al tema della giustizia vale forse la pena di sottolineare (fra parentesi) come un coefficiente di maturità, di speranza e di ottimismo la crescente parità della presenza femminile accanto a quella maschile già tradizionale nel campo dei giudici; grazie alla maggiore sensibilità della donna verso il “particolare” nel confronto fra norma giuridica e regola algoritmica.
Dopo un percorso che attraversa molti dei nodi di pensiero che agitano questa contemporaneità, e dal cui futuro svilupparsi dipende molto del futuro dell’umanità, prima di tutto in termini di convivenza pacifica, il suo ragionamento approda però ad una conclusione, offre al lettore, con ottimismo, una soluzione che è anche un percorso ed un programma politico. È l’Europa che potrà farsi l’interprete della pace. Innanzitutto, attraverso la difesa dei diritti fondamentali in capo ad ogni individuo ed il riconoscimento forte della dignità della persona, secondo i principi enunciati innanzitutto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, poi richiamati dalla Carta Edu, ma parimenti enunciati nella nostra Carta Costituzionale. Lei affida questa speranza ad un nome nuovo, Eur-hope, in cui si esprime il sogno in un futuro europeo diverso, migliore, in una convivenza compiuta e pacifica. Come riuscire a realizzare questo disegno, questa utopia (mai come in questo momento è di utopie che abbiamo bisogno), a fronte di una realtà che vede l’Europa asserragliata al suo interno, spaventata dagli arrivi dei migranti che sempre più si mira non solo a respingere, ma a disumanizzare sino a farne materiale da trasbordo verso realtà esterne, e sul fronte internazionale, incapace di far sentire la sua voce per la cessazione immediata delle guerre che si svolgono alle sue porte? Davvero, bisogna sapere guardare oltre, molto lontano da questo presente e da questa fase storica…
Perché il ricorso all’Europa e al suo “sogno di Eurhope” in un cammino che oggi vuole essere segnato in qualche modo dall’ottimismo nonostante i sovranismi; la tendenza a respingere e “disumanizzare” i migranti; la fragilità dell’Europa anche sul piano della frammentazione finanziaria e della debolezza politica, di fronte alle nuove oligarchie e autocrazie che sorgono ed ai nuovi conflitti e agli equilibri che ne nascono?
Perché per un verso la tradizione e la cultura europee verso la democrazia, nelle sue diverse forme e nonostante le ferite dei totalitarismi che hanno segnato la storia europea – sono un passato e un insegnamento che non si può dimenticare. Perché per un altro verso le tradizioni, l’insegnamento, la ricerca di una tutela dei diritti fondamentali in un contesto vorrei dire irripetibile di legalità e di costruzione dello Stato di diritto in un equilibrio tra eguaglianza, solidarietà, pari dignità delle persone, sono un patrimonio di cultura che ha lasciato tracce profonde nel DNA europeo. Perché infine riemerge il bisogno di una “costituzione europea” dopo il fallimento del primo tentativo di essa all’inizio di questo secolo.
È un patrimonio che non è facile da cancellare; è tale da giustificare la «speranza che non delude mai» più che l’ottimismo, come ricorda Papa Francesco nel suo invito a percorrere – con l’occasione del giubileo – il cammino versoi un mondo migliore.
* Avvocata generale, Procura generale Corte di cassazione, vicedirettrice di Questione Giustizia
Fonte: Questione Giustizia
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