Il processo “7 aprile” e il nodo del garantismo penale
Testo dell’intervento pronunciato nella festa per i sessant’anni di Magistratura democratica svoltasi a Roma nei giorni 9 e 10 novembre 2024 , destinato alla pubblicazione sul numero 4/2024 della Rivista Trimestrale ‘Questione Giustizia’.
Il processo del 7 aprile 1979, ero giudice istruttore a Padova da 4 anni, arriva alla fine di un decennio carico di contraddizioni e difficoltà, che hanno caratterizzato a lungo la storia del nostro paese.
Se all’inizio degli anni ‘70 era ancora viva la stagione lunga delle riforme democratiche – lo statuto dei diritti dei lavoratori è del 1970, il processo del lavoro è di tre anni dopo, l’istituzione delle regioni è del 1970, del 1975 la riforma del carcere che Igino Cappelli e Alessandro Margara tentarono di valorizzare e difendere – nel corso di quegli anni la situazione si modificò pesantemente.
Il contesto, nel 1979, vedeva una forte richiesta di ordine e di sicurezza dell’opinione pubblica, spaventata dal dilagare della violenza politica, che dalla metà del decennio era andata continuamente crescendo. Dal gennaio 1979 erano state uccise decine di persone, fra queste il sindacalista Guido Rossa, il dottor Emilio Alessandrini e altri magistrati.
Nella città di Padova il clima era da anni pessimo per numerosi atti di violenza nell’Università e in alcuni istituti, e soprattutto per le aggressioni a docenti, giornalisti, esponenti politici. Si possono ricordare le cosiddette gambizzazioni, quella del giornalista Antonio Garzotto del Gazzettino, quella di Ezio Riondato, ordinario di filosofia teoretica, quella di Gianpaolo Mercanzin, direttore dell’Opera universitaria. Ma poi, pur senza l’uso delle armi, i gravissimi pestaggi di alcuni docenti, Guido Petter, e Oddone Longo, emozionarono la cittadinanza; il tutto in un contesto di continue violenze, come “le notti dei fuochi”, durante le quali gli episodi di guerriglia urbana si succedevano in tutta la città. E poi nell’Università e in vari istituti era continua la richiesta dei seminari autogestiti e del voto garantito, con ingiurie, minacce, violenze ai danni dei docenti.
La città di Padova si aspettava l’iniziativa giudiziaria del 7 aprile 1979? Ebbene, se non si aspettava quella specifica iniziativa, di certo auspicava un intervento. Che appunto ci fu, con una impostazione particolare, originale, sorprendente.
I Collettivi politici padovani, conosciuti in città e protagonisti di molti episodi di violenza, erano secondo la Procura di Padova soltanto una cellula di un organismo più ampio e complesso, non solo cittadino, pensato da alcuni all’inizio di quel decennio, dopo che a Rosolina si era sciolto Potere Operaio. Il sostituto procuratore che dà vita all’inchiesta, il dottor Pietro Calogero, lo dice esplicitamente in un’intervista a Panorama del maggio 1978 e poi nei suoi ordini di cattura: «Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate Rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato».
Secondo il Pm, in principio vi era infatti un’associazione, appunto Potere Operaio, sorto alla fine degli anni Sessanta, che a partire dagli anni 1971-1972 assume come proprio programma quello di porre in atto varie forme di lotta armata per la conquista violenta del potere, e che poi articola la propria presenza sul territorio nazionale in varie organizzazioni. Si andava dunque ben oltre i Collettivi padovani, oltre la loro dimensione locale. Tutto, secondo il pubblico ministero, derivava da qui. E il suo impianto accusatorio rimase fermo fino alla fine.
Dunque, il 6 aprile 1979 il pm di Padova emette 22 ordini di cattura con accuse espresse in due capi d’imputazione. Secondo il primo – banda armata e inoltre associazione sovversiva – Antonio Negri e altri otto imputati erano i dirigenti e gli organizzatori delle Brigate Rosse. Agli altri tredici veniva contestata solo l’associazione sovversiva. Per effetto del combinarsi delle due imputazioni, nel primo gruppo di nove imputati veniva individuato il nucleo dirigente di tutta la lotta armata per come si era sviluppata in Italia nel corso del decennio. La prima parte del processo, quella relativa agli imputati accusati di entrambi i reati, viene trasmessa a Roma, anche con la posizione del professore Luciano Ferrari Bravo, nome questo che tornerà in questa relazione, gravato solo del reato di associazione sovversiva, senza passare dall’ufficio istruzione di Padova. Qui, a Roma, nella stessa giornata, ad alcuni imputati, Antonio Negri e altri, vengono contestati il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Così nel giro di 24 ore sembra definirsi l’intero quadro del terrorismo italiano.
La cronaca del giornale locale Il mattino di Padova diede l’idea di quel che stava succedendo, di come cominciava la battaglia. Con questo breve articolo. «Tutto cominciò sabato 7 aprile 1979. Alle 10 un aereo atterrò al “Marco Polo” di Tessera. Ne discesero una cinquantina di ufficiali della ex-Digos agli ordini di un vicequestore di Roma, che salirono su due pullman, destinazione Padova. Neppure mezzora dopo la città era assediata da mezzi blindati, impossibile uscirne senza incappare in un posto di blocco. L’operazione fu mastodontica: 22 ordini di cattura, 70 ordini di comparizione e un centinaio di perquisizioni domiciliari. Il blitz del sostituto Pietro Calogero cominciò così».
Se ciò determinò una forte sorpresa nell’opinione pubblica per la novità e l’imponenza dell’iniziativa della magistratura, questa fu subito sostenuta fortemente dall’intero sistema politico, in particolare dal Pci. Finalmente, dopo tante ipotesi, dopo tante incertezze, era possibile svelare la natura di tutto il terrorismo con l’individuazione delle sue teste pensanti; ed era possibile risolvere il caso Moro.
Per un lungo periodo di tempo questo partito sostenne l’inchiesta, senza tentennamenti, dal suo inizio, fino all’inizio degli anni Novanta quando fu chiaro a tutti che l’ipotesi di fondo era sbagliata. Sarebbero molte le citazioni in proposito.
Momenti importanti di questa collaborazione, molto valorizzati anche dai media, si sono ad esempio avuti quando due aderenti al partito dichiararono al pm e alla polizia di avere riconosciuto la voce di Antonio Negri, e anche quella del giornalista Giuseppe Nicotri, come quelle di coloro che durante il sequestro Moro, avevano telefonato alla famiglia per trattare e infine per annunciare la morte del sequestrato. Fatto importante e discusso, che a molti apparve decisivo, ma non corrispondente alla realtà. Qualche tempo dopo, con il procedere delle inchieste in varie parti d’Italia, si sarebbe potuto infatti sapere che le voci dei due telefonisti erano quelle dei brigatisti Valerio Morucci e Mario Moretti. Ma Antonio Negri, escluso a questo punto che fosse un componente della direzione strategica delle Br (escluse le telefonate nulla rimaneva a suo carico, quanto a Br), rimaneva comunque al centro dell’attenzione degli inquirenti con un ruolo superiore. «Appare inequivocabile che il Negri è stato in questo ultimo decennio un autentico motore della trama eversiva»: così avrebbe scritto il pubblico ministero nella sua conclusiva requisitoria.
La seconda parte del processo rimase a Padova, con la formale istruzione, e procederà con molte difficoltà. Intanto, i 22 imputati, per l’arrivo di nuovi fascicoli relativi a specifici atti criminosi e per la riunione di alcune parallele inchieste venete (Vicenza e Venezia), a Padova sarebbero diventati più di cento, 137. Peraltro io al Procuratore della Repubblica e a una parte dei media non apparivo idoneo a trattarla, e ciò venne detto in vari modi, per lungo tempo. Ero amico degli “autonomi”, scrisse qualcuno. I giudici istruttori, per l’ampiezza e la complessità dell’istruttoria, erano all’inizio in tre, ma i contrasti insorti con il pubblico ministero, con riferimento al reato di banda armata da contestare a nuovi imputati, ma anche a quelli rimasti a Padova con l’imputazione di associazione sovversiva, determinarono divergenze che indussero uno dei tre, il dottor Luigi Nunziante, a dissociarsi. La sua lettera inviatami il 29 giugno venne puntualmente trasmessa anche alla stampa. Il Mattino di Padova, pubblicando il testo della lettera, intitolava «Nunziante, come Calogero, si ribella a Palombarini».
Anzi, la Procura ritiene, e lo fa sapere in vari modi, che il giudice istruttore Palombarini dovrebbe astenersi, a causa dei suoi rapporti di amicizia (peraltro inesistenti) con Antonio Negri. Un avvocato del Pci illustra al giudice, suo amico, le dodici ragioni di un’astensione, generiche e inconsistenti: fra queste, sorprendente, l’aver estromesso la Digos dalle indagini per affidarne almeno una parte ai carabinieri. Mi verrebbe da dire: si lottava con il coltello fra i denti. L’idea di una pubblica manifestazione del Pci per sollecitare la mia astensione finì però in nulla.
In realtà era ben presto maturato un contrasto di fondo fra me e il Pm Calogero. Una lettura appropriata dei documenti sequestrati, la prova testimoniale, le dichiarazioni degli imputati “pentiti” (particolarmente importanti quelle del brigatista Patrizio Peci) mi inducevano a pensare che un unico partito armato protagonista del terrorismo non fosse configurabile, che Potere Operaio non fosse stata una banda amata, che lo stesso si dovesse dire di un’inesistente organizzazione unitaria Autonomia Operaia. Il “teorema Calogero”, non so chi inventò questa formula, mi sembrava sbagliato.
Di qui una lunga storia di scarcerazioni regolarmente impugnate, di impugnazioni dichiarate inammissibili, di rifiuti di emettere nuovi mandati di cattura, di pronunce della sezione istruttoria della Corte d’appello di Venezia che davano ragione al Pm. Il tutto seguito dalla stampa, quella del Pci particolarmente severa con me, volevo far fallire l’inchiesta. Il pubblico ministero ribadisce le sue convinzioni nella requisitoria finale, che di conseguenza trasmette in copia agli uffici impegnati nelle inchieste su Br, a Torino e a Roma, e alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. La mia sentenza-ordinanza conclusiva andò in direzione diversa.
Le sentenze dei giudici di merito, la corte d’assise di Padova e la corte d’assise d’appello di Roma (che assolve con formula piena gli imputati dall’accusa di insurrezione), sono esplicite nell’escludere l’esistenza di un unico partito armato, e nel negare la configurazione di banda armata sia per Potere Operaio che per un’unitaria Autonomia organizzata. Per me la storia finì qui.
Le reazioni alle sentenze di Padova e Roma furono contrastanti. Angelo Ventura, per quella di Padova, «è una sentenza che contraddice la verità storica e la stessa evidenza dei fatti» e Michele Sartori, de L’Unità, «le motivazioni del processo padovano non stanno né in cielo né in terra, si è ignorata la prova scritta». Dall’altro lato «una pagina scandalosa della giustizia italiana, l’operazione della magistratura più bassa della storia della Repubblica» (Rossana Rossanda), e giudizi positivi da Pietro Barcellona a Umberto Curi, da Luigi Manconi a Italo Mereu (finalmente è stato ribadito che nel nostro paese per condannare una persona per un reato sono necessarie le prove) a Stefano Rodotà.
A questo punto, per concludere, ritengo di poter proporre tre sintetiche annotazioni che possono avere ancora oggi un qualche interesse.
La prima riguarda il ruolo della stampa. Il magistrato inquirente usa la stampa per garantire l’opinione pubblica della bontà del proprio operato e per evidenziare gli errori del giudice istruttore. Così il procuratore della Repubblica di Padova Aldo Fais dichiarava «se non avessimo prove sicure mai e poi mai saremmo usciti con così gravi provvedimenti», e poi a la Repubblica «li abbiamo saldamente in pugno»; a Roma il sostituto Claudio Vitalone: «abbiamo le prove, non abbiamo alcuna intenzione di criminalizzare il dissenso, agli arrestati vengono contestati fatti delittuosi specifici».
I cronisti, specialmente quelli vicini al Pci, ma non solo loro, sostengono fermamente l’opera del Pm, utilizzando spregiudicatamente le indiscrezioni che gli inquirenti fanno filtrare. Progressivamente, intorno a questa alleanza inquirenti-giornalisti, si forma così un parallelo processo, a mezzo stampa. Che matura poi una sua relativa autonomia, con contestazioni fatte agli imputati prima ancora che questi siano interrogati dal giudice. A volte gli elementi di prova vengono addirittura inventati, tanto che è lo stesso giudice istruttore di Roma a precisare in un’occasione che tra il materiale sequestrato al professore Luciano Ferrari Bravo non vi erano documenti che parlassero di suoi rapporti con Prima Linea o con i Fedayn.
La seconda annotazione riguarda la supplenza. La supplenza della magistratura, conosciuta e discussa nelle sue varie forme fino ad allora, assume una nuova configurazione a partire dalla primavera del 1979, basata più sul consenso costruito dai media che sull’osservanza delle previsioni normative. Senza contrasti o discussioni, i problemi connessi a eversione e terrorismo vengono espressamente delegati alla magistratura, integralmente, dall’intero schieramento politico, che si è appiattito sul terreno dell’ordine pubblico. Non ci sono critiche, se non quelle de il Manifesto.
Terzo punto, il garantismo. Il discorso potrebbe essere lungo e complesso, non posso affrontare qui quella che fu una sua gravissima crisi. Citerò solo alcuni fatti, e una presa di posizione teorica, che quella crisi possono evidenziare. Alcuni mesi dopo l’inizio dell’istruttoria, quando le polemiche sul processo erano più intense e più forti gli attacchi nei miei confronti, numerosi giuristi e intellettuali di diverso orientamento, alcuni era iscritti al Pci, fra loro Bernardo Bertolucci, Massimo Cacciari, Ludovico Geymonat, Gianni Vattimo, Umberto Eco, Alberto Moravia, Stefano Rodotà, Luigi Nono, Guido Neppi Modona, diffusero un documento sul processo.
Scrissero, senza esprimersi in alcun modo su innocenza o colpevolezza, «se gli elementi di prova ci sono è bene che gli imputati vengano giudicati al più presto, se non ci sono anche nei confronti di questi imputati devono valere i principi costituzionali». Non ebbero alcuna risposta, l’intero sistema politico e il mondo dei giuristi rimasero in silenzio. Che fu rotto solo dall’Unità: il documento era ambiguo, con un’impostazione unilaterale «che fa apparire il terrorismo come un fatto lontano, indistinto, contro il quale richiamare al più una rituale condanna, ma non mobilitare coscienze». Un secondo rilievo. Molti imputati hanno sofferto lunghi periodi di custodia in carcere prima di essere assolti. Fra di loro, quando è stato assolto da ogni imputazione con formula piena, il professor Luciano Ferrari Bravo, che inutilmente avevo tentato di ricuperare alla mia istruttoria (ma questa è un’altra storia, ne ho scritto altrove), aveva sofferto ben cinque anni di carcerazione preventiva. Mi sarei aspettato che un fatto così grave suscitasse numerosi commenti. Invece l’intero sistema politico è rimasto in silenzio.
E le garanzie? Su Democrazia e diritto, nuova serie, 1978, Luigi Berlinguer scrive un ampio articolo critico contro il garantismo e la giurisprudenza alternativa. Il primo va rifiutato per la sua parzialità, «perché cogliendo un solo aspetto della realtà rischia di diventare mistificante, e soprattutto sposta l’accento fuori dalla posta in gioco fondamentale che sta davanti al movimento operaio, la programmazione, il governo democratico dell’economia», il secondo non è necessario, «essendo invece indispensabile l’uso corretto delle categorie giuridiche, che tutti devono rispettare e che l’egemonia operaia deve conquistare come mai raggiunta meta di giustizia». Frasi di non immediata comprensione ma che ho inteso così. Dopo i successi elettorali della metà degli anni 70, per la nuova politica del Pci il possibile ingresso nel governo del movimento operaio avrebbe garantito la tutela dei diritti, e non era il caso di creare problemi.
La verità è che proprio per il garantismo si era aperta una difficile stagione.
* Già procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione
Fonte: Questione Giustizia
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