Delmastro ignora la Costituzione, la nostra giustizia non è vendetta
La Carta parla di umanità della pena e finalità rieducativa. Principi incompatibili con le parole del sottosegretario.
“L’idea di far sapere ai cittadini come noi trattiamo, come noi incalziamo, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia”. Queste parole sono state pronunziate nel corso della presentazione di una nuova auto della polizia penitenziaria.
Ormai lo sanno tutti, altrimenti sarebbe stato interessante chiedere in giro di chi mai potessero essere. E sono sicuro che nessuno avrebbe indovinato che si tratta niente meno che del sottosegretario alla Giustizia onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove.
Perché nessuno potrebbe immaginare che un così alto rappresentante delle istituzioni pubbliche non tenga in conto che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Dalla lettura dell’articolo emergono due principi fondamentali: l’umanità della pena, che vieta le pene lesive del rispetto della persona, e la finalità rieducativa, per cui le pene non devono limitarsi a punire, ma mirare soprattutto alla rieducazione e al reinserimento nella società. Questi principi, un vero baluardo di civiltà, sono assolutamente incompatibili con una “intima gioia” per la sofferenza (non lasciar respirare) inflitta al detenuto.
Il nostro ordinamento costituzionale prevede per chi sia recluso un’unica sofferenza, la privazione della libertà personale, e ogni di più è un abuso incostituzionale. Come tale non può far parte del bagaglio argomentativo-culturale di un componente del governo, mentre l’onorevole Delmastro ne ha offerto una sorta di esaltazione propagandistica, per di più con tono compiaciuto e baldanzoso, come si può evincere dalle registrazioni del suo intervento.
Vero è che le polemiche immediatamente seguite alle sue incaute parole lo hanno spinto a cercare di rimediare, sostenendo che voleva riferirsi non a tutti i detenuti ma soltanto a quelli mafiosi. Senonché (a parte che la mancanza – sin dall’origine – di una esplicita distinzione tra le due categorie sarebbe comunque un errore) il merito della questione non cambia di molto.
Prima c’era la legge del taglione, restituire al male ricevuto altrettanto male. Ora l’articolo 27 della Costituzione ci chiede, con la rieducazione del condannato, di andare oltre il male. Attenzione: questo non significa affatto sminuire il male. Quindi nessun buonismo, sarebbe vanificare la giustizia.
Il senso di una giustizia giusta è di evitare che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare, scivolando nelle spirali della persecuzione vendicativa che finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto o sbaglio è stato ferito.
Il colpevole deve essere trattato secondo le leggi, altrimenti la punizione lo incattivisce ulteriormente, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile. Sono principi basilari in un regime democratico, che valgono per tutti i detenuti compresi i mafiosi.
Per questi giustamente la legge prevede un trattamento penitenziario differenziato in considerazione della speciale pericolosità delle organizzazioni criminali di appartenenza.
Ma nessuno può sostenere, secondo logica e buon senso, che la differenziazione possa arrivare al punto di “non lasciare respirare” il recluso. Neppure un sottosegretario di Stato, men che mai alla Giustizia.
Fonte: La Stampa
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