Ribellarsi alla mafia da Napoli a Milano
Ragazzi che sparano. In un’aula universitaria distante chilometri, gli studenti si confrontano con l’emergenza partenopea e l’indifferenza della città. C’è una montagna da scalare, ma l’estate dell’85 a Palermo insegna.
Milano. Nell’aula di Scienze Politiche le spiegazioni si affollano veloci. Ragazzi, ma alla fine voi che spiegazione date di quel che è successo a Napoli in pochi giorni? Perché si può morire così in una città bellissima, un minorenne dopo l’altro e per futili motivi, anzi, forse senza nemmeno un motivo? Perché dei coetanei ti uccidono con quella facilità?
Chi sta in classe sa benissimo che la vita diventa morte in un attimo in chissà quante città del mondo. Sa del Brasile, sa dell’Ecuador, sa del Messico. O delle guerre. Sa anche delle altre metropoli e della profonda provincia italiana.
Ma da Napoli giunge un interrogativo particolare: le stese, la criminalità minorile di massa, la quantità di armi che arriva sotto il Vesuvio destinazione minori. Parole, scenari, che irrompono nella nostra idea di città con il fiato della bestemmia addosso. Come diavolo è possibile?
Se ne parla. Sui banchi sta una fotocopia di un recente articolo di Maddalena Oliva (“Il Fatto”, 7 novembre), che non fa sconti a nessuno. Non trasforma in eroi contemporanei gli assassini da film o da serial tivù, né mette davanti a tutto i buoni che farebbero la “realtà vera”. Fuori lo spettacolo, fuori la retorica, insomma. Tutti e due nemici esiziali, specialmente in questi casi.
“Sono soli”, spiega uno studente. Due parole che sembrano un trattato. Lo spettro della “folla solitaria” di Riesman che si stende su decine di migliaia di giovani che ovviamente di Riesman nulla sanno e se ne fanno un baffo. “Stanno in branco, stanno insieme contro altri branchi ma sono soli”.
Ci rifletto, mi sembra che il pullulare impazzito delle solitudini possa in effetti essere una spiegazione di quanto avviene sotto i nostri occhi, che la violenza omicida l’hanno pur conosciuta.
Altro studente: “Vivono senza coltivare nessuna delle cose per cui noi ci battiamo. Libertà, solidarietà, cultura, rispetto. Nulla di queste cose. Perché?”. Sì, anche l’amicizia sa di veleno in questi microcosmi che si replicano meccanicamente senza mai divenire società.
“Sa che cosa mi colpisce?” chiede una studentessa. Il discorso in bocca a lei si articola, si capisce che è stata a Napoli, che ci è andata con lo sguardo generoso di tanti giovani che ci vanno intuendovi il fulgore di una civiltà più generosa. Che hanno letto dei maestri di strada, amano la sfida della Nuova Cucina Organizzata che fa il verso alla NCO di Raffaele Cutolo, sanno delle associazioni che, un vicolo dopo l’altro, si sono messe sulle spalle la difesa del patrimonio artistico della città. Lei non si capacita.
E continua: “Mi colpisce che a Napoli ci sono cose bellissime, associazioni meravigliose, e cose terribili, associazioni che sconfessano quello che fanno le altre. Mi chiedo perché non scatti quel meccanismo, quel meccanismo (la parola torna due volte; ndr) che mette in contatto queste due parti della città”. Pensa a una fusione in cui la parte buona abbia la meglio, e forse non è nemmeno un’utopia così screanzata. Sta di fatto che la parte buona reagisce davvero poco, come racconta dal vivo l’autrice dell’articolo. Forse le sembra inutile? Forse non vuole perdere tempo a inscenare finte ribellioni per la stampa? Chissà.
Si intuisce, sotto, la voragine della povertà educativa. Si intuisce, sopra, la montagna da scalare. Tiro fuori il “Dove c’è fatica c’è speranza” di don Milani, in cui ci il “dove” andrebbe preceduto da un bel “solo”.
Un paio di sere dopo, sempre Milano. Al collegio universitario, in un’aula ad anfiteatro zeppa ci sono soprattutto giovani del sud. Accanto a me una studentessa di Siracusa, un’altra, di Catania, intorno tanti giovani campani. Stigmatizzano che nelle scuole l’educazione alla legalità sia diventata un rito. Uno di loro pesca dal dizionario una parola felicissima: “pedaggio”.
Proprio così. Per essere considerati “allineati”, come oggi si dice, ai doveri della buona scuola bisogna pagare il pedaggio di Falcone e Borsellino. Passare da lì, forse pure dal generale dalla Chiesa, per sentirsi a posto. Ma, pagato il pedaggio, della mafia di oggi non si parla. Perché non la scorgiamo nella nostra vita quotidiana. Già, ecco il problema: perché non vediamo le forme concrete in cui si manifesta, al di là del sangue, che si è fatto più raro? Non reagiamo, in effetti, perché non capiamo il male che ci fa.
Ora ho studenti impegnati tutt’intorno, altro che indolenti, d’altronde sono venuti a studiare “altrove”. Bisogna spiegare il male che concretamente fa la mafia a ciascuno di noi, dicono. Ma per riuscirci occorrerebbe conoscerla a fondo, la mafia, averne rappresentazioni fedeli, non gomorre cartonate. Mi sembra che ci si metta d’accordo sul bisogno che alla fine resta inevaso.
Sapere di mafia in un paese in cui la politica non ne parla più (ricordate Borsellino? “purché se ne parli!”). Ovvero, il bisogno di “conoscere” per potersi mobilitare con successo, ma anche il bisogno di “mobilitarsi” -nelle scuole, nelle università- per conoscere.
Guardando quelle centinaia di visi mi torna in mente la teoria dei cicli. Dei cicli storici dei movimenti. Eccolo qui il nuovo ciclo possibile. Vorrebbero convincere il Nord a svegliarsi e a volte non sanno che i loro coetanei del Nord si chiedono a loro volta perché al Sud non si ribellino, e iniziano talora a ribellarsi in proprio, come ad avvenne per dare giustizia a Lea Garofalo.
Qui l’utopia di fondere i due desideri di ribellione si fa concreta. Qui sì che il meccanismo unificante può “scattare”. Bisogna solo preparare il momento, che ovviamente nessuno può fissare su una ideale agenda collettiva.
Oh, come ricordo l’estate dell’85 a Palermo. L’assassinio del commissario Montana a Porticello. Dopo una settimana, quello del commissario Cassarà, sotto gli occhi della moglie al balcone con la bambina in braccio, e accanto l’agente Roberto Antiochia straziato. Traditi dalle talpe maledette della questura.
Vigilia del 3 settembre, il terzo anniversario dell’assassinio del prefetto dalla Chiesa. Si temeva il deserto in una città messa a ferro e fuoco e in cui tutti si chiedevano dove fossero finiti i palermitani. E invece la sera dopo i palermitani si materializzarono prodigiosamente. Uscirono e poi uscirono ancora e presero le fiaccole in mano.
In trentamila, tanto che il cardinale Pappalardo vide e scese in strada mettendosi alla testa del corteo. Perché i cicli esistono. Ma guai a non farsi trovare pronti.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 19/11/2024
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