Le parole di Delmastro sui detenuti strizzano l’occhio a chi vorrebbe abrogare il reato di tortura
“L’intima gioia” che il Sottosegretario alla “Giustizia” Andrea Delmastro ha voluto condividere col pubblico qualche giorno fa, oltre ad essere un’offesa ai valori repubblicani, potrebbe anche integrare il reato di istigazione alla tortura e per questo credo che sia stata una uscita tutt’altro che estemporanea.
Temo che sia stata piuttosto una tappa ben studiata nel percorso tanto caro a Fratelli d’Italia che punta all’abrogazione del reato di tortura.
Il fatto è noto e lo richiamo per sommi capi: il Sottosegretario Delmastro, commentando pubblicamente i nuovi mezzi a disposizione della Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti, in un climax retorico per nulla improvvisato, ha evocato l’intima gioia provata nell’immaginare quanto fossero rassicurati i cittadini italiani dal sapere come si possano incalzare, come si possano non far respirare i detenuti dietro quei vetri oscurati.
Parole gravissime che hanno richiamato non soltanto precise e micidiali tecniche di contenimento della persona fermata nel corso di attività di polizia, quelle tecniche di immobilizzazione che presuppongono la pressione sul collo del fermato e che in particolare negli Usa sono state causa di terribili uccisioni per soffocamento, come nel caso di George Floyd. Ma, ancor peggio, parole che hanno evocato l’impunità di chi ponga in essere tali condotte: i “vetri oscurati” dietro ai quali può succedere qualunque cosa, a maggior gloria della tranquillità dei cittadini.
Non credo sia stato soltanto un eccesso verbale frutto di sbrodolante narcisismo: credo che sia stato un modo preciso per lanciare un messaggio politico a quegli ambienti che non hanno mai digerito l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e che prima ancora avevano maledetto le sentenze Cedu con le quali l’Italia è stata ripetutamente condannata per i fatti del G8 di Genova del 2001.
Un atto politico, quello di Delmastro, così estremo che potrebbe integrare la fattispecie prevista dall’art. 613 ter che recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Una fattispecie inserita nel 2017 insieme a quella principale, il 613 bis CP, che appunto sanziona la tortura. L’articolo 613 ter, l’istigazione alla tortura da parte di un incaricato di pubblico servizio, è particolarmente severo perché la condotta è perseguibile anche se l’istigazione non è accolta o il delitto non è commesso (nel qual caso invece si risponderebbe direttamente di concorso nel reato di tortura), proprio a voler rimarcare la gravità della condotta da parte di chi rappresenti le Istituzioni, che mai e poi mai dovrebbe permettersi di incitare colleghi o sottoposti alla prepotenza.
La Polizia penitenziaria dipende in maniera funzionale dal ministero della Giustizia: ecco perché credo che il Sottosegretario con le sue parole, da ritenersi “concretamente idonee” proprio perché pronunciate pubblicamente e infarcite di impunità preventiva, possa aver commesso il reato di cui al 613 ter. Si capisce tra l’altro quanto un’ipotesi del genere pretenda – per poter anche soltanto essere messa in discussione – una magistratura indipendente da ogni altro potere dello Stato, che non debba cioè chiedere il permesso al governo prima di cominciare una indagine penale.
Mi auguro quindi che la condotta di Delmastro non venga frettolosamente archiviata e consegnata a qualche, pure doverosa e tempestivamente arrivata, presa di posizione politica.
Mi auguro che le sue parole siano stigmatizzate dalle rappresentanze delle Forze di Polizia perché non è questa deriva illiberale e sprezzante della dignità della persona che può garantire un futuro migliore anche a chi opera sul difficile margine della esecuzione della pena (mi scuso se mi fosse sfuggito qualche comunicato).
Infine è davvero desolante come questo governo di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) continui nell’opera sistematica di demolizione del principio di uguaglianza nella pratica della giustizia, usando la mano pesante (rigorosamente dietro ai “vetri oscurati”) per criminalizzare il dissenso e invece quella di velluto per sollazzare “colletti bianchi” che corrompono ed evadono. L’ultima denuncia su questo punto è contenuta nell’intervista rilasciata proprio oggi a La Stampa da Giuseppe Busia, capo dell’Anac, che conferma: “Senza più reato di abuso d’ufficio sarà più difficile punire la corruzione”.
Chi semina impunità raccoglie terrore: lo si dovrebbe tenere presente tanto più quando ci si indigna giustamente per la commemorazione pubblica del mafioso stragista Totò Riina, fatta ieri via social dal figlio omonimo: mai sarebbe potuta crescere così tanto la forza criminale dei sodali di Riina senza qualche “vetro oscurato” di troppo.
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