I doveri dei magistrati di oggi
Pubblichiamo il testo della Relazione introduttiva del Presidente dell’ANM al Comitato direttivo centrale (Roma 16/17 novembre 2024).
La Giunta esecutiva, nel documento varato il 1° novembre scorso all’indomani dell’aspra polemica politico-mediatica contro la sezione immigrazione del Tribunale di Bologna, e in specie del collega Marco Gattuso, ha denunciato l’aria pesante che da qualche tempo si respira nella e intorno alla giurisdizione.
Quell’aria, nelle due settimane e poco più da quel documento, è divenuta ancora più pesante.
È proprio per questa ragione che, a mio giudizio, oggi il Comitato direttivo centrale dovrà in risposta impegnarsi affinché l’aria si faccia più respirabile, leggera, perché si allenti la morsa polemica e il clima delle relazioni istituzionali torni al sereno.
So bene!
L’obiettivo è facile a dirsi ma per nulla a raggiungersi, anche e soprattutto perché non dipende da noi, non sono nella nostra disponibilità gli strumenti per sedare un conflitto a cui non abbiamo dato causa.
Eppure, non possiamo muoverci altrimenti.
Il tema oggi è cosa e come fare.
Su questo dobbiamo interrogarci nella nostra discussione sui molti punti all’ordine del giorno, in gran parte aspetti e profili di un’unica grande questione.
Nella speranza di introdurre utilmente la discussione, indico con la necessaria sintesi le tessere del mosaico che, secondo la prospettiva che vi propongo, dovremo caparbiamente cercar di comporre o di ricomporre.
Ciò farò utilizzando copiosamente la categoria del dovere, che mi sembra la più adeguata a sostanziare quel che ritengo per noi magistrati un passaggio ineludibile:
una chiara presa di posizione all’interno della cornice dei principi democratici e liberali che ci devono guidare con forza ancora maggiore per venir fuori dalla canea da cui siamo circondati.
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In questo difficile scenario, con piena consapevolezza del ruolo che ci spetta.
Abbiamo il dovere di non arrenderci alla fatica di spiegare quali sono i termini della questione dei trattenimenti dei richiedenti asilo, anche quando i nostri interlocutori del momento sviliscono con ostentato fastidio le ragioni del diritto a pretesti da azzeccagarbugli, mostrando di non voler ascoltare, arroccati sulla formula propagandistica della magistratura politicizzata.
Abbiamo il dovere di ribadire che la magistratura italiana non è in nessuna sua parte attraversata da faziosità politica e non avversa i programmi di chi oggi è maggioranza politica di governo.
Abbiamo il dovere di ricordare, sulla scia del bel documento sottoscritto da oltre 250 magistrati in pensione (e che ci è stato trasmesso qualche giorno fa), quale sia la missione di una magistratura autonoma ed indipendente in una democrazia liberale la cui Carta fondamentale pone al centro la persona e i suoi diritti fondamentali, che si sottraggono, e se del caso si oppongono, alle volontà dispositive delle maggioranze, pur quando estese e pur se democraticamente elette.
Abbiamo il dovere di non cedere alla stanchezza e allo sconforto, trovando la forza di contrastare, con la ragione e il diritto, la coltre di maliziose accuse che ci piovono addosso, che confondono, sconcertano, disorientano, sporcano l’immagine di una fondamentale Istituzione, presidio di libertà e di uguaglianza, quale è, è stata nella storia di questo Paese e, per mezzo di noi tutti e di quanti verranno, sarà ancora la magistratura italiana.
Abbiamo il dovere di riaffermare che la soggezione è alla legge e non al legislatore del momento, che la legge vive all’interno di un reticolo sistematico che vede un concorso di fonti al cui interno la relazione gerarchica non è la sola direttrice ordinante e che, in ogni caso, in quella relazione il vertice è assegnato alla Costituzione e, in alcune materie, alla normativa eurounitaria.
Lungo questo tracciato, che non ha alternative, che si impone a noi con forza pari soltanto alla sensibilità costituzionale che ci anima, al contempo e in parallelo
Abbiamo il dovere di evitare che la paura, il timore di essere osservati, in qualche modo sorvegliati, si insinuino e si conquistino uno spazio tra noi, quando assistiamo a fatti inquietanti, al venir fuori, dopo esser stato evidentemente conservato per anni alla bisogna, lo screenshot di qualche nostro stato whatsapp, reso noto al tempo soltanto ai nostri pochi contatti telefonici (mi riferisco ai recenti articoli di stampa che hanno riguardato la collega Antonella Marrone).
Un giudizio critico su un messaggio social di un personaggio pubblico che al tempo non era al Governo serve oggi, trascorsi due anni e più, per definire l’immagine di un magistrato politicamente antagonista, schierato, pregiudizialmente ostile, ora che quel personaggio pubblico è al Governo del Paese e soprattutto ora che il magistrato autore di quello stato whatsapp ha preso un provvedimento sgradito al Potere, peraltro occupando un posto ed esercitando una funzione tutt’affatto diversi da quelli del tempo.
Abbiamo il dovere di conservare integra la serenità nello svolgimento dei nostri compiti, pur se recandoci in ufficio, accomodandoci alla scrivania, sapremo che il provvedimento che ci toccherà assumere, secondo linee consolidate della giurisprudenza e orientamenti interpretativi della nostra sezione formati nelle apposite riunioni indette per assicurare uniformità di indirizzo, ci consegnerà sia al pericolo di essere additati come magistrati comunisti (termine che si carica di significato spregiativo ben oltre i confini della sua naturale semantica) e nemici del popolo; sia al pericolo di veder violata la nostra sfera di riservatezza con la pubblicazione di fotografie attinenti a momenti di vita privata e con notizie sulle nostre relazioni affettive.
Abbiamo il dovere di non cadere nel tranello di individuare la causa del vortice di polemiche, in cui il nostro ufficio viene risucchiato, nel collega, vicino di stanza, per aver questi preso parte giorni prima, settimane prima, mesi prima, anni prima, ad un convegno su temi giuridici divenuti politicamente scottanti, per aver questi espresso opinioni nell’esercizio del diritto, fino a qualche tempo fa incontestato, di esser presente nel dibattito interno alla comunità dei giuristi su aspetti dell’ordinamento che ora ci proiettano prepotentemente e nostro malgrado sulla scena pubblica.
Abbiamo il dovere di non attardarci nella domanda se sia ancora il caso, visti gli attacchi ripetuti nei confronti di sempre più colleghi, di prender parola ad un convegno, ad una pubblica riunione, in cui, con lo strumento dell’argomentazione composta e rispettosa delle Istituzioni tutte, potremmo assentire o dissentire su una qualche interpretazione o su qualche disegno di legge, pur di iniziativa governativa, o potremmo svolgere addirittura critiche, che so, sulle linee della politica penale della maggioranza di Governo, per il timore che l’indomani quelle nostre opinioni potranno formare il banco di accusa della nostra faziosità e il banco di prova della nostra parzialità.
Abbiamo il dovere di scongiurare il rischio che la giusta pretesa di imparzialità e di apparenza di imparzialità non si confonda in taluno con la volontà di ridurci al silenzio, di mettere i magistrati all’angolo, nell’angolo buio di un funzionariato pre-costituzionale.
Tutto ciò lo dobbiamo, prima che a noi stessi, alle persone della cui vicende di vita saremo chiamati ad occuparci tenendo fede, senza arretramenti, al mandato costituzionale di autonomia e di indipendenza, di indipendenza anche dalle nostre comprensibili personali preoccupazioni, rinnovando con la consapevolezza del ruolo un dovere di resilienza, il cui adempimento pone al riparo la funzione del giudicare dalle temperie che possono turbare le nostre vite.
Lo dobbiamo anche ai tanti giovani magistrati che si apprestano in questi giorni a muovere i primi passi nel nostro difficile eppure appassionante mondo professionale, perché anche col nostro esempio possano apprendere e rafforzarsi nella virtù forse più importante per un magistrato: la fermezza nella decisione temprata dal dubbio che innerva lo studio e l’esame delle contrapposte ragioni e che si dissolve nel momento in cui la decisione matura, senza che pressioni esterne o interne possano influenzarla.
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Il contesto che genera inquietudine si è da ultimo arricchito della proposizione di un emendamento in sede di conversione del decreto-legge (n. 145 del 2024) sui flussi migratori e sulla protezione internazionale, diretto a spogliare le sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali della competenza sulla convalida dei trattenimenti, con soave e sorprendente indifferenza per le ragioni dell’organizzazione giudiziaria.
Così, con un colpo di penna si vorrebbe stravolgere l’ordinario assetto delle competenze e la Corte di appello, già gravata da importanti carichi di lavoro che ci hanno fatto dubitare della possibilità di centrare gli ambiziosi obiettivi del PNRR, dovrebbe occuparsi delle procedure di convalida, se non ho letto male con le sue sezioni penali.
È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze; si percepisce piuttosto la voglia di rappresentare nel modo più plateale, appunto: con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative.
Nell’impossibilità di degiurisdizionalizzare le procedure di convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo, si vorrebbe svilire il senso della specializzazione, si vorrebbe sostituire il giudice perché le sue pronunce non sono state gradite.
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E mentre cresce l’insofferenza per la giurisdizione, il lavoro parlamentare per la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, o meglio sulla separazione della magistratura, viene accelerato.
Una riforma che, stando agli irenici propositi di chi se ne fa sostenitore, non dovrebbe nutrirsi delle ragioni che stanno a fondamento delle attuali tensioni e che pure, a dispetto di qualche dotta argomentazione, in più di un’occasione autorevoli esponenti politici della maggioranza hanno presentato, con indubbia sincerità, come la risposta ad una magistratura con troppa indipendenza, che non si rassegna, come dovrebbe, ad applicare la legge senza interpretarla.
A mio giudizio si scorge, senza particolare difficoltà, la coerenza tra quel che accade oggi in materia di diritto di asilo e quel che matura in Parlamento sulla riforma costituzionale.
È un’idea di giurisdizione diversa da quella che ci ha guidato per molti e molti anni, che abbiamo per tutto questo tempo condiviso con l’avvocatura.
La giurisdizione è un bene comune e sono convinto in maniera radicata che gli avvocati italiani non possono che dissentire da un progetto volto al ridimensionamento del giudiziario, che non potrebbe che restringere i loro spazi di azione come promotori della difesa dei diritti.
Per questa ragione faccio fatica a comprendere la posizione di una parte dell’avvocatura, mi riferisco all’Unione delle camere penali che, da un lato, non lesina parole di sferzante critica alle politiche governative in materia penale e penitenziaria e avverte il bisogno di affermare, in uno per il vero con altre autorevoli voci (v., ad esempio, l’Associazione degli studiosi di diritto dell’Unione europea), che le recenti decisioni giudiziarie in tema di convalida di trattenimenti sono tutt’altro che abnormi; e dall’altro, è riluttante a considerare la riforma costituzionale per quel che è e non per quello che vorrebbe che fosse.
Siccome non ho alcun intento polemico e non ho alcuna voglia di ribattere con la stizza che pure si dovrebbe ad un recente deliberato dell’Unione, in cui si legge, stanco refrain, di politicizzazione della magistratura, di violazione del principio della separazione dei poteri (dall’Unione vista come conseguenza dell’espansione indebita del potere giudiziario), rivolgo alle camere penali l’invito sincero a rinnovare la loro riflessione critica sul disegno di legge sulla separazione della magistratura, ad osservare quel che accade e ad essere conseguenti alle premesse di quel liberalismo penale di cui si fanno in molte occasioni interpreti.
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Concludo infine con un auspicio, che potrà pure sembrare poca cosa ma che mi sta a cuore per una ragione ideale tutt’altro che banale.
Sarebbe bene, penso, che quanti partecipano al dibattito pubblico, doverosamente allargato, sulla riforma costituzionale, si astengano, una volta che scoprono di essere privi di buoni argomenti per sostenerla, dal discutibile espediente di usare il nome e la figura di Giovanni Falcone per elevare tono, qualità e contenuti della riforma.
La memoria di un eroe, di un martire della Repubblica, va onorata astenendosi dall’usare il suo nome nel confronto, a volte anche acceso, su una riforma che matura a oltre trent’anni dal suo estremo sacrificio.
Questa riforma, se e quando sarà varata, non potrà portare il nome di Giovanni Falcone; non gli appartiene, non potrebbe appartenergli, appartiene ad altri.
Almeno questo sia concesso alla verità dei fatti e sia sottratto alla mistificante opera della propaganda.
Buon lavoro!
* Presidente Associazione Nazionale Magistrati
Fonte: Giustizia Insieme
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