Altre bugie su Ciancimino e l’inutile interrogatorio
La morte di Paolo Borsellino è stata per la mafia un pessimo affare (copyright Giovanni Bianconi). Dopo la morte di Falcone era stato varato un decreto legge che prevedeva un carcere di giusto rigore per i mafiosi, il cui regime carcerario fino a quel momento era da “aragoste e champagne”. Ma i giorni trascorrevano senza che quel decreto fosse convertito in legge, finché la strage di via D’Amelio non svegliò le coscienze costringendo i parlamentari ad approvare quello che oggi è il 41 bis.
Ora il rischio di un pessimo affare (questa volta per lo Stato) si ripropone, se non fosse rigorosamente imparziale il lavoro della Commissione parlamentare antimafia sulla verosimiglianza o meno di un’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio legata al dossier mafia-appalti.
In questo contesto – nel recente libro L’altra verità di Mario Mori e Giuseppe De Donno – si è tornati a parlare di Vito Ciancimino, che ebbe un ruolo di primissimo piano nel cosiddetto sacco di Palermo, in quanto assessore ai lavori pubblici in un periodo di selvaggia trasformazione della città con un aumento incontrollato delle aree edificabili.
Ciancimino (detenuto a Rebibbia) fu più volte interrogato dalla Procura di Palermo del dopo stragi, su sua richiesta veicolata dagli Ufficiali del Ros Mori e de Donno. Gli interrogatori furono condotti dai sottoscritti (Caselli e Ingroia), alla presenza, praticamente costante, di De Donno e/o Mori, non solo “per esigenze di indagine” (come talora specificato nell’epigrafe del verbale), ma anche per avvalersi del rapporto confidenziale già instauratosi fra Ciancimino e il ROS che poteva facilitare uno sviluppo positivo degli interrogatori.
Il primo interrogatorio è del 27 gennaio 1993 e molti altri ne seguirono. Il potenziale collaborativo di Ciancimino era elevato, sul piano amministrativo (appalti) e su quello politico. Nel primo caso basti ricordare le 4000 licenze edilizie da lui rilasciate come assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo, di cui 2500 finite nelle mani di tre pensionati prestanome delle cosche mafiose senza alcun legame con l’edilizia. Sul secondo versante, il lungo curriculum politico di Ciancimino, sfociato in una sostanziale collaborazione con Lima e Andreotti, significava opportunità di conoscere la mala-politica e i rapporti tra mafia e politica.
Per contro, nulla è emerso dagli interrogatori. Con una certa altezzosità, Ciancimino (premesso che i suoi processi erano “tutti inventati”) pretendeva fin da subito la “patente” di collaboratore di giustizia, per certe mappe che aveva indicato al Ros, forse per la cattura di Riina. Chiedeva inoltre di essere scarcerato per poter operare come infiltrato del Ros nell’ambiente politico – amministrativo, allo scopo di fornire elementi utili su appalti truccati e altre irregolarità. Una proposta all’evidenza irricevibile se non provocatoria. Quando il discorso virava su mafia e politica scattavano, come un riflesso pavloviano, le parole “portatemi prima una condanna di Andreotti”….
Ciancimino voleva far credere che Cosa nostra fosse un fenomeno localistico articolatosi quasi solo sul terreno degli appalti pubblici per motivazioni meramente economiche. La “vera mafia” stava sopra e ad essa andavano ascritte, per esempio, la morte di Lima e di Falcone, risultato di un disegno politico nel quale un ruolo decisionale di peso aveva avuto un soggetto che perciò Ciancimino chiama “architetto”: del quale egli “ha in testa il nome ma non le prove”, e comunque non lo direbbe mai temendo rappresaglie su se stesso e i suoi familiari.
In sostanza, in decine di ore di interrogatori abbondano – più che la possibilità di concreti sviluppi investigativi – suggestioni, congetture, illazioni, supposizioni e induzioni. Elargite da un signore che non perde occasione per insultare Falcone, rifiuta la qualifica di uomo politico nelle mani dei corleonesi e proclama una “assoluta estraneità che nessuno o al più pochissimi potrebbero rivendicare” rispetto a “un sistema politico-economico che certo presentava deviazioni e degenerazioni”.
Quindi una delusione rispetto alle aspettative degli inquirenti, che alla fine furono costretti a interrompere gli interrogatori (ma non definitivamente, perché si decise di affidare a un collega la continuazione degli stessi nell’ipotesi che Ciancimino si decidesse a collaborare davvero), senza che gli ufficiali del Ros avessero mai nulla eccepito o richiesto.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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