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La necessità di tutelare l’autonomia della giurisdizione

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Memoria, Politica

Sul Giornale del primo novembre Alessandro Sallusti ha avviato una campagna in favore della separazione delle carriere fra Pm e giudici, «un passaggio fondamentale verso una riforma sostanziale della giustizia». E ha proposto (con scaltro calcolo di comunicazione) di chiamarla “riforma Falcone”, essendo a suo avviso proprio Falcone il “padre” della separazione.

Al riguardo Sallusti cita un’intervista di Mario Pirani sulla Repubblica del 13.10.91 nella quale Falcone dichiara: «un sistema accusatorio parte dal presupposto di un Pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri».

Se è ammesso interloquire oggi con il grande Falcone (nel CSM 1986-90 ho sempre votato a suo favore su note tormentate  questioni) vorrei dire la mia.

Azzardando un commento basato su un’esegesi di carattere formale, si potrebbe ricordare che “separazione delle carriere” e “separazione delle funzioni” erano – in passato – concetti quasi intercambiabili. La separazione delle funzioni è oggi disciplinata con rigore (il Pm che voglia diventare Giudice e viceversa deve soddisfare precisi requisiti e accettare di essere trasferito in un’altra regione ), mentre ai tempi di Falcone un Pm poteva diventare giudice e viceversa della sera alla mattina, rimanendo nello stesso Tribunale. Ciò indubbiamente poteva causare sconcerto, perché determinava quella “intercambiabilità” e “indistinguibilità” che secondo Falcone era all’origine del problema dei rapporti tra Pm e giudici.

Ma quel che in ogni caso interessa di più è la contestualizzazione delle opinioni di Falcone, il fatto decisivo che egli parlava in un’epoca tutt’affatto diversa da oggi. Stellarmente diversa.

Falcone (che pure ha avuto i suoi guai per il modo corretto e intransigente con cui esercitava le sue funzioni) non poteva sapere quali conseguenze hanno causato Tangentopoli e Mafiopoli anche sui rapporti tra magistratura e politica, sempre più caratterizzati da attacchi furibondi contro i magistrati.

Falcone non poteva sapere che si è cominciato con un’ampia scelta di insulti (tra i più delicati: assassini, cupola mafiosa, pazzi, antropologicamente diversi dal resto della razza umana, golpisti, cancro da estirpare….)

Falcone non poteva sapere che seguirono campagne organizzate di aggressioni, senza risparmio di mezzi, delle quali è stato antesignano Silvio Berlusconi, ma che sono di fatto continuate fino a oggi grazie agli epigoni del Cavaliere e non solo.

Falcone non poteva sapere che il risultato di queste campagne è che oggi gli interventi giudiziari si valutano sempre più sulla base dell’utilità o meno per sé, di certo non secondo criteri di correttezza e rigore.

Falcone non poteva sapere che il garantismo classico si sarebbe trasformato in un neo garantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico).

Falcone non poteva sapere che alcuni imputati “eccellenti” sarebbero arrivati al punto di contestare il processo per delegittimarlo, quasi replicando impropriamente alcune cadenze del cosiddetto processo di rottura degli anni di piombo.

Falcone non poteva sapere che il persistere nel nostro Paese, trasversalmente, di zone grigie di collusione fra pezzi (senza generalizzare, ma pezzi consistenti) del mondo politico con il malaffare, sconsiglia nel modo più assoluto di accettare qualunque forma  – anche in via di mera ipotesi sperimentale – di sottomissione del PM al  potere esecutivo.

Falcone non poteva sapere che l’ultimo sviluppo di questa deriva (e siamo ai giorni nostri) si registra con la contingente tendenza del Governo  a vedere automaticamente – nel magistrato che fa un provvedimento che non gli piace – un pericoloso nemico politico.

Falcone non poteva sapere che sono aumentate in misura esponenziale le circostanze in cui per ricercare la verità non basta essere magistrati onesti e preparati ma occorre anche essere coraggiosi e combattivi.

Falcone non poteva sapere che la separazione delle carriere sarebbe stata il coronamento e il suggello di tutto questo percorso.

Ho sempre considerato riprovevole cercare di far parlare i magistrati morti (come si fosse a una seduta spiritica) per far dire loro cosa avrebbero fatto o meno in certe circostanze. Ma qui la prospettiva è diversa in quanto basata sui tanti “non poteva sapere” sopra elencati.

Un’ultima annotazione. Quando Falcone si trasferì al Ministero – nel  1991 – si inventò la Procura nazionale antimafia. Alcuni colleghi scrissero un documento (primi firmatari Caponnetto, Borsellino e il sottoscritto, di certo non ostili a Falcone) criticando alcuni punti che subordinavano il nuovo Ufficio giudiziario al potere del Ministro e favorendone la modifica nella versione finale. Per dire come sul piano fattuale vi fosse ampio accordo sulla necessità di tutelare l’autonomia della giurisdizione.

Fonte: La Stampa

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