Quelle campagne di denigrazione contro i campioni dell’antimafia
A volte conviene recuperare storie del passato per illuminare il presente.
Prendiamo la storia di Giovanni Falcone: osannato come eroe dopo morto, in vita venne ostacolato in tutti i modi. Fu tacciato di uso abnorme degli strumenti giudiziari per fini politici di parte se non per scopi personali.
Il maxiprocesso (che segnerà la fine dell’ impunità di Cosa nostra) veniva definito «un contenitore abnorme di per sé e per il modo in cui era stato costruito». E via salmodiando. Finché nel luglio 1988 Falcone fu costretto a scrivere al Csm una lettera nella quale denunziava «infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza» ai suoi danni.
Una campagna che produsse effetti velenosi quando (dovendosi, dopo Nino Caponnetto, nominare un nuovo capo dell’Ufficio istruzione) invece di Falcone, il più bravo dell’antimafia, fu nominato un magistrato digiuno di mafia e forte unicamente di una maggiore anzianità. Borsellino segnalò subito, pubblicamente, che così l’antimafia arretrava di una trentina d’anni, ma in cambio della sua coraggiosa denunzia ricevette un avviso di procedimento disciplinare per non aver usato le vie istituzionali. Brutti tempi correvano allora per le toghe per bene.
Ma qualcosa del genere sembra accadere anche oggi. Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato, due campioni dell’antimafia come Falcone, da tempo sono oggetto di campagne violente di denigrazione e delegittimazione. Perché?
Nella Commissione parlamentare antimafia vi sono soggetti che vorrebbero far passare le loro tesi, per quanto inconsistenti, senza neppure confrontarsi seriamente (non per finta) con chi la pensa in modo diverso, anche se si tratta di magistrati come Cafiero e Scarpinato, forti di una cultura antimafia e di una conoscenza approfondita del fenomeno, acquisita con anni di duro lavoro.
Per cui si può serenamente affermare che la loro preziosa esperienza, trasferita alla Commissione parlamentare, può essere utile a tutti: anche a coloro che rifiutano il confronto perché sono arroccati nelle loro posizioni pregiudiziali, per cui sentono come un pericoloso fastidio il contributo che Cafiero e Scarpinato potrebbero dare.
E per non correre rischi lasciando loro troppo spazio, si è pensato – com’è noto – di modificare il regolamento della Commissione prevedendo l’obbligo dei componenti di astenersi dalla trattazione dei temi rispetto ai quali si trovino in una situazione di presunto conflitto di interessi, formula di una ambiguità che neanche Pirandello avrebbe saputo far meglio.
A questa situazione incresciosa, a dire davvero poco, hanno cercato di opporsi i familiari delle vittime di mafia, con una lettera pubblica che si conclude con una forte «denunzia della vergogna di uno Stato che ritiene di poter allontanare i suoi più valorosi servitori con la scusa di un conflitto di interessi», che però evidentemente non è ritenuto così insidioso quando ad averlo siano componenti della Commissione che non si chiamano Cafiero o Scarpinato (e qui la lettera fa riferimento alla Presidente Chiara Colosimo). Alla lettera seguirà una iniziativa dei familiari in Senato.
Detto senza alcuna enfasi retorica, i familiari delle vittime di mafia sono anch’essi vittime, perché vivono un continuo, immenso dolore che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro fermezza è un richiamo a non dimenticare e un punto di riferimento morale.
Per tutti questi motivi la Commissione deve ascoltarli. Salvo che voglia in modo assolutamente irrispettoso accodarsi a coloro che sostengono la necessità di una “rieducazione” dei familiari delle vittime, accampando l’ingiustificato e assurdo timore che essi possano sbilanciare, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia.
Fonte: La Stampa
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