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Berlusconi e i soldi della mafia, spunta un riferimento nell’inchiesta sulla ”banda dei dossier”

Aaron Pettinari * il . Corruzione, Criminalità, Forze dell'Ordine, Giustizia, Lombardia, Mafie, Memoria, Sicilia

Non mancano le sorprese nell’inchiesta sulla cosiddetta “banda dei dossier”, ovvero quella che secondo la Procura di Milano sarebbe un’associazione a delinquere che effettuava migliaia di accessi illeciti alle banche dati riservate.

La maxi informativa di oltre 3800 pagine, depositata agli atti, mostra l’esistenza di una vera e propria “centrale di dossieraggio” capace di “condizionare” economia e politica” con contatti di altissimo livello.

Si fa riferimento a incontri tra i vertici di questa struttura e “due uomini non identificati che rappresenterebbero un’articolazione dell’intelligence di Israele”; si parla di stipula di un “accordo commerciale” di scambio di informazioni riservate; o ancora compaiono riferimenti ad un “mandato” ricevuto persino dalla Chiesa.

A tutto questo si aggiungerebbe un riferimento, secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, anche a rapporti economici tra l’ex Premier Silvio Berlusconi (oggi deceduto) e la mafia.

È un commento che viene fatto tra l’informatico Nunzio Samuele Calamucci, descritto dagli inquirenti come “il deus ex machina del gruppo di tecnici che rendono possibile gran parte delle attività” della banda dei dossier (indicatoe assieme all’ex superpoliziotto antimafia Carmine Gallo ai vertici del gruppo), e Massimiliano Camponovo, suo socio nella società d’investigazioni private Mercury Advisor Srl, anch’egli tra gli indagati.

I due, commentando alcuni documenti ricevuti la sera del 9 maggio 2023, si lasciano andare con queste parole.
“Invece… ma cos’è quella roba lì invece del…di quella trascrizione?”, chiede Camponovo al telefono. “Quella è la vera prova di colpevolezza di Silvio Berlusconi di come ha preso i soldi dalla mafia” risponde Camillucci.

Lo scambio prosegue. “Wauuu dopo me la leggo anch’io allora…” dice l’investigatore privato. Calamucci tra una risata e l’altra asserisce che questo documento non sarebbe mai stato fatto pubblicare.

“Ma quindi non era vittima – dice Camponovo – quindi era in affari che diverso”. Calamucci, stando al Fatto, sarebbe netto: “Esatto: vittima le palle”. “Allora è vero quello che si legge in giro – replica il detective privato – insomma che era proprio in affari…”. E mentre il suo interlocutore conferma con una serie di “Sì”, Camponove aggiunge: “Non era… Non era a rischio di sequestro dei figli per cui passava i soldi… sai che c’era”. “Ah… allora no… non so se… se lo vedi all’inizio ma troverai anche il carabiniere nome e cognome del carabiniere, che per casualità conosciamo anche che… ha fatto questa intercettazione in carcere”, dice Calamucci, riferendosi probabilmente all’autore dell’atto che i due stanno commentando.

Dall’informativa dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Varese, in cui si parla di una trascrizione non meglio identificata, si dà comunque atto che prima della telefonata Calamucci aveva inviato dei dati al suo interlocutore “relativi al database del Ros di Milano” ricevuti da un altro detective privato ed ex carabiniere del Sos, Vincenzo De Marzio.

Un soggetto, quest’ultimo, che secondo gli inquirenti sarebbe colui che avrebbe in qualche modo fornito alla banda “contatti, intelligence straniere, clienti di altissimo profilo, informazioni e documenti riservati nonché un data base esfiltrato a suo tempo di dati di polizia e riservati sottratti con ogni probabilità al database del Ros”.

Proseguendo nel dialogo, addirittura Calamucci asserisce di aver ricevuto dall’ex Ros circa 200 giga di file. (“No questo qua me l’ha dato lui perché facendo due chiacchiere gli ho detto io sono alla ricerca di materiale semi-storico per… per un mio progetto no? Mi avrà mandato 200 giga di roba…”).

Sicuramente spetterà agli inquirenti capire il significato di quelle parole, se si tratti di una chiacchiera o qualcos’altro.
Del resto gli investigatori descrivono Calamucci come “uno scaltro stratega in grado di generare attorno a sé e ai suoi affari una cortina fumogena che rende di difficile comprensione la moltitudine di attività illecite di cui si rende complice e promotore”.

Difficile capire se su quell’interlocuzione sia stato fatto un ulteriore accertamento o se l’atto sia stato trasmesso a qualche altra Procura.

Certo è che questo dialogo alimenta interrogativi e sospetti proprio sulla natura dei rapporti tra Berlusconi e la mafia.
In questi anni ogni accusa relativa a rapporti economici diretti tra Silvio Berlusconi e la mafia non è mai stata dimostrata ed è sempre stata smentita.

Tuttavia c’è una traccia, rappresentata dalla sentenza definitiva di condanna a 7 anni per concorso esterno nei confronti dell’ex senatore (e braccio destro di B.) Marcello Dell’Utri.

Nelle motivazioni della sentenza è scritto che per diciotto anni, dal 1974 al 1992, l’ex senatore è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”. Inoltre viene spiegato come “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Cinà (Gaetano Cinà, boss mafioso, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.

Inoltre i giudici della Suprema corte parlano, più che di una polizia privata assunta per proteggere sé e la sua famiglia, di un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni”. E Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.

Parole scritte nero su bianco.

Vittima o altro?

Tuttavia la domanda è rimasta sempre aperta: Silvio Berlusconi è una semplice vittima o anche qualcos’altro? Certo è che in tanti anni non si è mai capito se l’allora imprenditore, poi per oltre vent’anni protagonista assoluto della politica del nostro Paese, pagasse soltanto un’estorsione colossale alla mafia o se fosse inserito in un’opera di riciclaggio.

Le inchieste in questo senso sono state archiviate e il Tribunale presieduto da Leonardo Guarnotta scrisse in sentenza che “la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-’84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa”.

Lo stesso Berlusconi avrebbe potuto fornire spiegazioni ma il 26 novembre del 2002, chiamato a deporre, si avvalse della facoltà di non rispondere. Resta dunque una certezza, sempre sancita dalla sentenza Dell’Utri. Berlusconi è stato un imprenditore “mai sfiorato dal proposito di farsi difendere dai rimedi istituzionali”, ma pronto a rifugiarsi “sotto l’ombrello della protezione mafiosa, assumendo Mangano e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”.

Inchiesta aperta a Firenze sulle stragi

A queste vicende, poi, se ne sono aggiunte altre. Fino al giorno del decesso Berlusconi, sempre assieme all’amico Marcello, è stato anche indagato dalla Procura di Firenze con l’accusa di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano.

Un fascicolo più volte chiuso e riaperto un’ultima volta dopo la trasmissione di atti, pervenuti da Palermo, con le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo c’è stata l’urgenza” diceva il capomafia durante l’ora di passeggio con il camorrista Umberto Adinolfi.

Parole, quelle del capomafia stragista, che hanno portato anche a numerose polemiche con pareri discordanti tra i periti che hanno analizzato e trascritto i ventuno colloqui nell’ambito del processo trattativa Stato-mafia.

Le parole di Riina

Anche il Capo dei capi, Totò Riina, durante il passeggio nel carcere di Milano con il boss pugliese Alberto Lorusso aveva parlato di Berlusconi il 22 agosto 2013: “…si è ritrovato con queste cose là sotto, è venuto, ha mandato là sotto a uno, si è messo d’accordo, ha mandato i soldi a colpo, a colpo, ci siamo accordati con i soldi e a colpo li ho incassati’’. Quanti? “A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi”.

E sempre Riina aggiungeva: “I catanesi dicono, ma vedi di… Non ha le Stande, gli ho detto, da noi qui ha pagato. Così, così li ho messi sotto, gli hanno dato fuoco alla Standa. Minchia, aveva tutte le Stande della Sicilia, tutte le Stande erano di lui. Gli ho detto: bruciagli la Standa. A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi, 250 milioni ogni sei mesi. Quello… è venuto il palermitano… mandò a lui, è sceso il palermitano ha parlato con uno… si è messo d’accordo… Dice vi mando i soldi con un altro palermitano. Ha preso un altro palermitano, c’era quello a Milano. Là c’era questo e gli dava i soldi ogni sei mesi a questo palermitano. Era amico di quello… il senatore (ovvero Dell’Utri, ndr)”.

Certo, le parole del boss corleonese, oggi deceduto, non hanno a che fare con la sentenza Dell’Utri ma sono finite comunque agli atti del processo Stato-mafia.

L’appunto di Falcone

In questi ultimi anni è emerso che anche Giovanni Falcone aveva annotato in un appunto “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”.

Non è dato sapere il perché Falcone aveva scritto quel riferimento sull’ex Presidente del Consiglio, allora imprenditore. Sicuramente, ad anni di distanza, sono numerosi gli interrogativi che restano senza risposta.

Il ritorno di Graviano

Nelle indagini fiorentine un nuovo impulso investigativo era stato dato nel 2020 quando, sorprendentemente, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano decise di rompere il suo lungo silenzio nel processo ‘Ndrangheta stragista.

Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e delle parti civili, Graviano diede una sua spiegazione a colloqui tra lui ed Adinolfi.

“Io sto dando degli elementi – disse in udienza l’8 febbraio 2020 – se volete indagare indagate, io mi sono fatto 26 anni di carcere già e me li sto facendo con dignità, io sono in area riservata senza coperte a congelare, non ho mai avuto timore degli uomini, solo di Dio, mi sta bene il carcere, siamo di passaggio in questo mondo. Tutti eroi sono in Italia… vediamo se sono eroi oppure arrivisti”.

Era quello il giorno in cui disse di aver incontrato Silvio Berlusconi da latitante “almeno per tre volte” e che l’ultima sarebbe avvenuta nel dicembre del 1993, ovvero poche settimane prima del suo arresto (avvenuto il 27 gennaio 1994), in un appartamento a Milano 3. (“È successo a Milano 3, è stata una cena. Ci siamo incontrati io, mio cugino e Berlusconi. C’era qualche altra persona che non ho conosciuto. Discutiamo di formalizzare le società”).

La carta scritta

La natura di quei rapporti tra la famiglia Graviano e Silvio Berlusconi sarebbe di tipo economico e, a detta del capomafia, sarebbero risalenti ai primi anni Settanta quando il nonno sarebbe stato interpellato “per investire al Nord, venti miliardi di lire. Gli dicono che gli avrebbero concesso il 20 per cento”. “Mio nonno (Filippo Quartararo, ndrvoleva partecipare a quella società e curarsi le sue cose – aggiungeva nel suo flusso di coscienza – Andò da mio padre che però gli disse che non voleva saperne e che non voleva che coinvolgesse noi nipoti. Intanto mio nonno quei soldi non li aveva, aveva messo insieme solo quattro miliardi e mezzo. Morto mio padre, mio nonno dice a me e a mio cugino, Salvatore Graviano, che camminava sempre con lui, la verità, ci dice della società con gli imprenditori del Nord, perché non aveva nessun altro a cui rivolgersi. Disse: ‘C’è questa situazione, io sto andando avanti. Tuo papà non vuole che mi rivolga a voi. Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu. Io e mio cugino Salvo abbiamo detto: ci pensiamo. Ci siamo consigliati col signor Giuseppe Greco, padre di Michele Greco. Abbiamo deciso di sì e siamo partiti per Milano. E mio nonno ci ha presentato al signor Berlusconi, abbiamo capito cosa era questa società. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì”.

E poi ancora: “Berlusconi ci ha presentato la società, eravamo solo lui, io, mio cugino e mio nonno con l’avvocato Canzonieri e che voleva che i nostri nomi apparissero nelle carte della società perché i soldi erano leciti, puliti, dovevano entrare formalmente nella società mio nonno e quelli che avevano investito i soldi. Noi eravamo lì con mio nonno perché lui ormai era molto anziano, dovevamo essere pronti a prendere il suo posto una volta morto”.

Quindi Graviano aveva dichiarato che fosse esistente una carta privata che proverebbe il rapporto con Berlusconi, anche se non sarebbe stato mai formalizzato l’ingresso ufficiale in società.

Il 14 febbraio 2020, sempre nel processo davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, aveva dichiarato: “La teneva mio cugino: nel 2002, quando stava per morire, sua moglie mi mandò una lettera perché lui voleva parlarmi. È andato mio fratello, ma lui voleva parlare con me. Forse, voleva dirmi dov’era la lettera”.

Rispetto a tutte le affermazioni del capomafia di Brancaccio l’allora legale di Berlusconi, Nicolò Ghedini (anche lui deceduto), aveva immediatamente replicato a suddette dichiarazioni definendole come “totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie”.

Tuttavia, a quanto è dato sapere, mai alcuna denuncia sarebbe stata fatta contro Graviano.

Certo è che sulle affermazioni di Graviano pesano le parole dei giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria, che non le avevano ritenute credibili sul punto (“Con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo su questo punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”).

Ma la Procura di Firenze aveva comunque cercato di andare fino in fondo, proprio alla ricerca della carta scritta anche sentendo lo stesso Graviano, prima che si trincerasse in un nuovo silenzio.

Niente da fare.

Di documenti e carte scritte sui rapporti economici tra Berlusconi e la mafia, neanche l’ombra.

A meno che la “banda dei dossier” non sappia qualcosa in più.

* Antimafia DUEMILA, 30/10/2024

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