Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri
Dovendo decidere ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, D.L.vo 25/2008 in via interlocutoria e urgente (entro il termine di 5 giorni dalla sua presentazione) su una istanza di sospensione del provvedimento che dichiarava la manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino del Bangladesh, il tribunale di Bologna con ordinanza del 29 ottobre 2024 ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ravvisando la necessità di risolvere alcuni contrasti interpretativi in relazione alla disciplina rilevante contenuta nella Direttiva n. 2013/32/UE e, più in generale, alla regolazione dei rapporti fra il diritto dell’Unione Europea e il diritto nazionale.
La rilevanza della questione, e un certo clamore mediatico, deriva non soltanto dalla necessità di verificare se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti legali della deroga al principio sancito dalla Direttiva 2013/32/UE (cd. procedure recast) per cui in caso di ricorso giurisdizionale vi è il diritto di rimanere sul territorio del paese ospitante sino all’esito del ricorso, quanto dai più generali riflessi della questione. La definizione dei presupposti legali della designazione di un paese terzo come “paese di origine sicuro” e dei poteri del giudice ordinario di disapplicazione dell’atto di designazione ha invero potenti conseguenze sulle attuali politiche governative in materia di protezione internazionale, posto che il noto accordo fra Italia e Albania, che prevede il trasferimento coatto dei richiedenti asilo sul territorio albanese sino alla decisione della Commissione territoriale sulla sua domanda, poiché comporta il trattenimento della persona è applicabile -in forza della stessa direttiva- soltanto nei confronti di chi proviene da un paese sicuro.
Com’è noto, dopo alcuni provvedimenti del Tribunale di Roma del 18 ottobre 2024, che hanno affermato la illegittimità della designazione come “paesi di origine sicuri” dei paesi di provenienza -Bangladesh ed Egitto- dei richiedenti asilo coattivamente trasferiti in Albania, il Governo in data 23 ottobre 2024 ha emesso il decreto-legge n. 158 con cui ha confermato la designazione di 19 paesi, fra cui il Bangladesh.
Dovendosi applicare -per la prima volta- in virtù del principio del cd. tempus regit actum, tale nuova disposizione di natura processuale, in vigore dal 24 ottobre 2024, il Tribunale di Bologna ha dunque ritenuto di proporre alla Corte europea due quesiti:
- se ai sensi della Direttiva 2013/32/UE la designazione sia consentita anche in presenza di persecuzioni e di pericoli di danno grave diretti in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli appartenenti a specifici gruppi sociali, in particolare nei confronti di un solo gruppo sociale di difficile identificazione, quali ad esempio le persone lgbtiqa+, oppure gli appartenenti a minoranze sociali, etniche o religiose, o le donne esposte a violenza di genere o rischio di tratta;
- se il principio del primato del diritto europeo ai sensi della consolidata giurisprudenza della Corte imponga di riconoscere il dovere del giudice di disapplicare l’atto di designazione anche se la stessa venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria.
Nell’ordinanza viene sottolineato con forza come la necessità di chiedere un chiarimento della Corte di Giustizia non sia fondata tanto su un effettivo dubbio interpretativo del giudice remittente, il quale chiarisce con nettezza il proprio orientamento, quanto sulla necessità di assicurare l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, nel momento in cui le differenti opzioni esegetiche hanno condotto ad un vero e proprio conflitto istituzionale con riguardo alla nozione di “paese di origine sicuro”, ai rapporti fra diritto europeo e diritto interno e ai poteri del giudice ordinario.
Il Tribunale evidenzia infatti che “il Collegio ha una precisa opinione in ordine alla corretta soluzione interpretativa” ma ritiene necessario che “la Corte di Giustizia sia invocata quando occorra dissipare gravissime divergenze interpretative del diritto europeo, manifestatesi nel caso di specie in modo obiettivo e virulento in seguito ad alcuni provvedimenti giurisdizionali sino alla decretazione d’urgenza di cui al D.L. n. 158/2024”. Rileva il tribunale che “in presenza di un gravissimo contrasto interpretativo del diritto dell’Unione, qual è quello che attualmente attraversa l’ordinamento istituzionale italiano, il rinvio alla Corte è opportuno al fine di conseguire un chiarimento sui principi del diritto europeo che governano la materia”.
Riguardo al primo quesito, che attiene ai presupposti legali che consentono la designazione di un paese terzo come “paese di origine sicuro”, il tribunale rileva che “quando era stata immaginata la redazione di una lista devoluta al Consiglio dell’Unione europea, la discussione sulle possibili designazioni era limitata ai paesi europei per cui risultava pendente una domanda di adesione all’Unione” tant’è che la Commissione Europea aveva suggerito di includere soltanto l’Albania, la Bosnia ed Erzegovina, la Macedonia, il Kosovo, il Montenegro, la Serbia e la Turchia. La competenza attribuita ai paesi aderenti ha condotto invece ad una progressiva estensione, da parte di alcuni paesi, fra cui l’Italia, “anche a paesi extraeuropei per cui le condizioni di sicurezza sono spesso assai dubbie”.
Tale esito è stato determinato da una “linea interpretativa che ha condotto ad estendere la lista nazionale italiana dei paesi di origine sicuri alla gran parte dei paesi da cui provengono coloro che chiedono asilo in Italia (con l’eccezione, fra quelli più rilevanti, del Pakistan e, adesso, dei tre paesi che presentano conflitti interni), predisponendo per gli stessi un apposito apparato normativo conseguente ad accordi intervenuti con la Repubblica di Albania”.
Il Collegio ha ritenuto a tale proposito necessario “sgombrare innanzitutto il campo da un equivoco di fondo, quello per cui potrebbe definirsi sicuro un paese in cui la generalità, o maggioranza, della popolazione viva in condizioni di sicurezza”.
Il tribunale ha osservato al riguardo che “il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori, statuali o meno. Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite della Romania durante il regime di Ceausescu o della Cambogia di Pol Pot), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista. Se si dovesse ritenere sicuro un paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica”.
Vengono rammentati due autorevolissimi precedenti delle due massime Autorità giudiziarie francese e inglese, il Conseil d’État e la High Court, che hanno entrambe dichiarato illegittima la designazione di tre paesi (Senegal, Gambia; Giamaica) in ragione della persecuzione dei (soli) appartenenti alla comunità lgbtqia+. La nozione di sicurezza non è stata riferita, dunque, alla maggioranza della popolazione, ma in ragione della persecuzione delle (sole) persone lgbtqia+, è stato negato che il paese possa essere incluso nella lista nazionale dei paesi di origine sicuri.
Sono interessanti al riguardo le notazioni del tribunale bolognese per cui sarebbe irragionevole “pretendere che una persona appena giunta nel paese ospitante sia subito in grado di chiarire in che termini sia attinta da rischi persecutori sistematicamente e ordinariamente presenti nel proprio paese. Ne sono esempi evidenti l’ipotesi di donne provenienti da paesi in cui vi siano endemici fenomeni di tratta di esseri umani, le quali sono sovente ancora oggetto di tratta al momento dell’arrivo, e l’ipotesi di donne o persone lgbtqia+ provenienti da paesi con fenomeni endemici di violenza di genere, matrimoni imposti, mutilazioni genitali o persecuzioni per l’orientamento sessuale o l’identità di genere, che possono non essere in grado di narrare immediatamente il proprio vissuto, in ragione della necessità di sottrarsi alla soggezione culturale dovuta al contesto di provenienza”.
I giudici emiliani hanno rilevato pure come “in ipotesi di fenomeni sistematici di persecuzione o esposizione a danno grave di minoranze, tutta la popolazione appaia in qualche modo esposta a un rischio persecutorio, atteso che raramente una minoranza è segnata da confini netti e facilmente identificabili e che quando vi è persecuzione di un gruppo minoritario la stessa tende a colpire anche chi, pur non appartenendo al gruppo minoritario, sia entrato comunque per varie ragioni in relazione con appartenenti allo stesso”.
Il tribunale ha osservato, quindi, una vistosa contraddizione logica fra gli atti interlocutori e il provvedimento finale in relazione al Bangladesh, atteso che nelle conclusioni della stessa “scheda paese” preparata dal Ministero si suggerisce che “il Bangladesh può essere considerato come un Paese sicuro (…) ad eccezione delle fattispecie indicate al punto n. 6” (dove sono indicati gli appartenenti “alla comunità LGBTQI+, alle vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, alle minoranze etniche e religiose, alle persone accusate di crimini di natura politica e ai condannati a morte. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”) senza che di tale diffusa insicurezza si tenga conto nella decisione finale adottata. Tale “incongruenza logica”, secondo il Tribunale, “è spiegabile soltanto seguendo lo schema interpretativo, che evidentemente sottende anche al D.L. n. 158/2024 promosso dal Governo italiano, per cui la Direttiva 2013/32/UE consentirebbe la designazione se comunque la maggioranza della popolazione è in condizioni di sicurezza o per cui la designazione avrebbe in ogni caso natura giuridica di “atto politico”, determinata da superiori esigenze di governo del fenomeno migratorio e di difesa dei confini nazionali, prescindendo dalle informazioni e dai giudizi espressi dai competenti uffici ministeriali in ordine alle condizioni di sicurezza del paese designando”.
Il secondo quesito riguarda il dovere del giudice di disapplicare le disposizioni nazionali che contrastino con il diritto europeo.
Tale potere-dovere è stato affermato da oltre quattro decenni in una consolidata e monolitica giurisprudenza della Corte di Giustizia (ex multis cfr. sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. E.N.E.L. e sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal. L’esigenza di tornare ancora una volta su questo avanti ai giudici di Lussemburgo, nonostante “l’intima e ferma convinzione giuridica del Collegio” che tale dovere sussista, deriva ancora una volta dalla necessità di dipanare il “gravissimo contrasto fra le diverse Autorità chiamate a interpretare e applicare il diritto dell’Unione”.
Nel riportare il contenuto del provvedimento, la stampa ha evidenziato un preteso intento “impugnatorio” del recente dl del 23 ottobre 2024 (“i giudici mandano il dl davanti la Corte”) ed ha sottolineato un passaggio ad effetto sulle condizioni di sicurezza durante regime nazista (“seguendo il governo sarebbe sicuro anche la Germania nazista”). Alcuni esponenti politici, i ministri degli esteri e dell’interno, chiamati a commentare l’ordinanza in un momento in cui il testo non era ancora pubblico, hanno criticato una pretesa fuga dagli stretti limiti della giurisdizione.
In verità, la lettura dell’ordinanza attesta la chiara volontà, dato atto di un conflitto interpretativo innegabile, di trovare una soluzione razionale a tale conflitto attraverso il ricorso alla Autorità istituzionalmente preposta ad assicurare uniformità di interpretazione del diritto europeo.
È noto che la Corte di giustizia ha competenza esclusivamente sulla interpretazione del diritto europeo, con decisioni che sono vincolanti e inderogabili per tutte le autorità dei paesi aderenti all’Unione, giudiziarie e non, ma non ha invece alcuna competenza sulla legittimità degli atti nazionali (nonostante l’evoluzione giurisprudenziale della Corte abbia via via esteso il controllo, attraverso la tecnica decisoria per cui il diritto europeo, correttamente interpretato, può “ostare” a che i legislatori nazionali adottino determinate misure). È dunque errato leggere nella richiesta di chiarimenti sul diritto europeo una sorta di “impugnazione” del dl italiano.
La ricerca di una soluzione definitiva è, invece, precisamente nel solco del recente invito del Capo dello Stato ad abbassare i toni e a trovare soluzioni tecniche al conflitto e alle divergenze di opinione in atto. Seguendo le indicazioni delle linee guida per la redazione dei rinvii pregiudiziali, il tribunale di Bologna ha espresso in modo chiaro il punto di vista dell’Autorità remittente. Il Governo italiano, che (a differenza di quelli tedesco e olandese, intervenuti con orientamenti opposti fra loro) non era intervenuto nel procedimento che ha condotto alla sentenza del 4 ottobre, menzionata nel preambolo del dl e in qualche modo “contestata” dal governo italiano, ha adesso modo di presentare il proprio punto di vista, peraltro obiettivamente e precisamente rappresentato nella stessa ordinanza bolognese, depositando le proprie osservazioni.
Non resta dunque che attendere la decisione della Corte.
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Fonte: Giustizia Insieme
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