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Don Burgio: «Cattivi ragazzi? Continuano a non esserci, è cambiato lo sguardo degli adulti»

Chiesa di Milano il . Cultura, Diritti, Giovani, Giustizia, Lombardia

Nel suo ultimo libro «Il mondo visto da qui», il cappellano del Beccaria offre un nuovo spaccato dell’odierno disagio adolescenziale, indicando il ruolo che i “grandi” dovrebbero avere nell’educazione.

Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto minorile di Milano “Cesare Beccaria” e fondatore della comunità Kayros, è ancora convinto che non esistano i cattivi ragazzi. È cambiato casomai lo sguardo degli adulti, che criminalizzano gli adolescenti, considerandoli “non normali”.

Tutte le trasformazioni che il sacerdote ha osservato dalla sua posizione privilegiata sono contenute nel suo nuovo libro Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang. Edito da Piemme (176 pagine, 17.90 euro) e uscito nelle librerie il 22 ottobre, è una nuova riflessione sulla condizione degli adolescenti di oggi. «Quello a cui assistiamo – spiega don Burgio – è un disagio molto più trasversale rispetto al passato. Non riguarda solo chi proviene da quartieri difficili o da famiglie disgregate o assenti. Al Beccaria sono arrivati negli ultimi mesi anche tanti ragazzi che appartengono a famiglie benestanti o senza particolari problemi».

Azzerare il divario generazionale

La speranza di don Burgio è che questo libro aiuti molti genitori e adulti a entrare nel mondo di questi ragazzi. Tramite il racconto di Mario e di altri giovani provenienti da Kayros, il sacerdote tenta di rimuovere questo divario generazionale, riflettendo senza giudizi: «Ispirandomi anche al racconto biblico dei discepoli di Emmaus e al dipinto di Janet Brooks Gerloff che raffigura il loro cammino, cerco di tracciare un percorso che permetta ai ragazzi di riscoprire la speranza».

Secondo don Burgio quello che oggi manca nella cultura educativa dei giovani è la capacità di affrontare con realismo le loro esigenze. Nei loro confronti si ripeterebbero modelli di educazione ormai formali e retorici. Molti dei giovani con cui ha a che fare in carcere gli fanno notare che spesso sono affascinati dalle figure che raccontano più quello che vivono, piuttosto che quello che hanno imparato. «Gli stessi testi della musica di alcuni di loro sono in fondo la reazione emotiva, anche cattiva se vogliamo accettarla come una provocazione, che avvertono nel mondo adulto. Questo non vuol dire legittimare tutto o presentarla come un’indulgenza bonaria, ma permettere a questi ragazzi di esprimere anche le loro critiche senza giudizi, per cercare anche, come ha fatto Gesù, il senso della fede, rimanendo in cammino. E questo vale per tutti».

Lo spazio che mancherebbe per loro, oggi, è quello dove poter lasciar affiorare le domande. Perché nonostante le etichette che vengono loro attribuite, il sacerdote continua a vederli come ragazzi smarriti, persi in una società che offre piaceri immediati, ma che li terrorizza con un futuro incerto.

Per queste ragioni don Claudio è convinto che la figura del sacerdote sia importante in questi contesti, per offrire uno sguardo differente sulla realtà, capace di restituire un senso profondo all’esistenza. Il libro si riferisce infatti sia alla prospettiva del carcere minorile, sia alla visione evangelica della realtà. Contesti che esigono la testimonianza di un messaggio cristiano, ma che necessita parole semplici e vicine al vissuto quotidiano dei ragazzi: «Molto spesso mi si accusa di parlare come un assistente sociale, ma ben venga, perché vivo dentro questa realtà e quindi devo anche assumere un linguaggio che sia pertinente all’ambiente che frequento».

Fonte: Chiesa di Milano

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Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang

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