Il grido di padre Marcelo
Padre Marcelo Pérez era un tsotsil, un discendente dei Maya. In Chiapas non aveva avuto bisogno di sposare quel popolo perché ne era parte da sempre.
Prima che padre (gesuita) era figlio. Il vangelo di Cristo aveva dato vigore e significato ancora più incisivo a questa sua appartenenza e per questo gli sembrava assolutamente naturale difendere i diritti umani minacciati dai narcos in quella terra.
Domenica scorsa è stato ucciso a colpi di pistola nella sua auto mentre rientrava a San Cristóbal de Las Casas dopo aver celebrato la messa. A tal punto era incisiva la sua instancabile e coraggiosa attività a favore della pace e dei diritti dei popoli indigeni che le bande criminali avevano posto una taglia di un milione di pesos (poco meno di 50 mila euro) sulla sua testa.
Quelle terre sono diventate una zona franca del traffico di droga e dello sfruttamento illegale dell’ambra, della tratta di esseri umani e del traffico di armi. Aveva organizzato marce e dato vita a movimenti indigeni, aveva svolto attività di mediazione nei conflitti sociali e soprattutto non aveva mai smesso di denunciare la condizione di vita di intere popolazioni sottoposte allo strapotere dei cartelli criminali.
La gente gli voleva bene e sentiva di potersi affidare a lui, ma p. Marcelo Pérez chiedeva una maggiore presenza dello Stato e il riconoscimento degli indigeni del Chiapas. Che il sangue di questo profeta e martire diventi seme di giustizia.
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