Daphne Caruana Galizia, due riflessioni sul giornalismo a partire dalla sua tragica morte
L’ultima “strega” bruciata viva in Europa si chiamava Daphne Caruana Galizia. La sua condanna a morte è stata eseguita il 16 ottobre del 2017 nelle campagne di Malta, Paese membro dell’Unione Europea.
Della storia di Daphne Caruana Galizia colpiscono e devono far riflettere non soltanto l’ultimo tragico momento ovvero il suo assassinio degno della peggiore tradizione terroristico-mafiosa, ma anche la fatica estrema che per anni Daphne ha sopportato pur di continuare a fare la cosa nella quale credeva: informare liberamente e seriamente per contribuire a scardinare la cappa di corruzione, clientelismo, familismo amorale che vedeva gravare in maniera soffocante sul Paese che amava.
Per anni la giornalista Daphne Caruana Galizia pur di scrivere senza padroni, ha affrontato il continuo tentativo di screditarla e di isolarla portato avanti da chi, disponendo di un potere soverchiante, ha fatto di tutto per spaventarla, offenderla, minare l’equilibrio suo personale e della sua famiglia.
Più Daphne studiava, scavava (da archeologa quale era per formazione) e scriveva, più la gente di Malta prendeva confidenza con i suoi articoli e li cercava sul blog Running Commentary, che era arrivato ad avere centinaia di migliaia di accessi quotidiani in un Paese di poco più di quattrocento mila abitanti e più i centri di potere che si sentivano minacciati dal suo lavoro le opponevano un crescendo di reazioni.
Il campionario di attacchi andava dalle querele “bavaglio” cioè querele con un chiaro intento intimidatorio (bisognerebbe una volta per tutte smettere di chiamarle “querele temerarie”: non c’è nulla di temerario in chi dall’alto dei propri privilegi si difende da scomode verità, minacciando scientemente la parte più vulnerabile), fino all’insulto personale: così presero a chiamarla la “Strega di Bidnija”.
Nell’aggressione protratta per anni contro questa donna libera, contro questa giornalista caparbia si manifestano due questioni che hanno a che fare con il tempo che stiamo vivendo, con la liquidazione della democrazia liberale, con la fine del diritto capace di regolare la forza, con la fine di quella bella idea rivoluzionaria: le persone nascono tutte libere ed eguali. Sono due questioni che stanno una dentro l’altra, come una matrioska.
La prima: il mestiere più rischioso al mondo è diventato quello del giornalista, inteso, per estensione, come il lavoro di chi racconta quello che vede e capisce, per contribuire alla verità e quindi alla libertà. Infatti, se ha ancora un senso parlare di “omicidi/femminicidi eccellenti” cioè di assassinii perpetrati contro personalità di rilevanza pubblica, non tanto per la fama, quanto per la funzione esercitata, ebbene questi crimini “eccellenti” negli ultimi anni hanno avuto come bersaglio quasi esclusivamente giornalisti e ficcanaso-senza-tesserino.
Dopo Daphne verranno uccisi Jan Kuciak in Slovacchia (insieme a lui verrà ammazzata la compagna Martina Kusnirova), Peter de Vries ad Amsterdam, Andy Rocchelli in Ucraina, Giulio Regeni in Egitto, prima di loro Anna Politkovskaja a Mosca. A questi nomi si dovrebbero poi aggiungere i nomi dei giornalisti uccisi in centro-sud America e di quelli uccisi a Gaza da quando è cominciato l’attacco israeliano.
Se questa prima questione riguarda i centri di potere criminale ed i centri di potere legale che non nasconde insofferenza, come è chiaro in Italia con l’avvento al governo degli eredi-al-quadrato (del Duce e di Berlusconi), la seconda questione è più profonda e riguarda ciascuno di noi: quanto vale ancora la conoscenza della realtà come presupposto di ogni esercizio libero di sovranità democratica? A chi interessa ancora sapere per partecipare? A quanti interessa soltanto più sentirsi confermati nelle proprie convinzioni da narrazioni che hanno a che fare con la propaganda e non con il giornalismo?
Purtroppo la posta in gioco per molti non è più la sovranità da esercitare, ma la protezione da ottenere in cambio di rassegnata obbedienza. Con ciò inverando la supremazia ideologica della vendetta sulla giustizia, del clan sulla società, della forza sul diritto, al punto che per riassumere la mitica “geopolitica-globale” attuale forse basterebbe lo schema concettuale del 416 bis del Codice Penale (mafia). Suonerebbe così: “E’ dominante quella organizzazione che al fine di esercitare la propria supremazia si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo che genera omertà ed assoggettamento”. Opporsi all’ordine israeliano di evacuazione delle basi Onu in Libano è parte della resistenza a questa deriva. Come pure l’opposizione ai centri di detenzione italiani in Albania.
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