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“Uno strano dono” racconta le guerre del mondo e la pace con la disabilità

Nico Piro il . Cultura, Diritti, Guerre, Informazione, Società

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un abstract dal nuovo libro di Nico Piro intitolato “UNO STRANO DONO”, recentemente uscito per Solferino dove l’autore affronta il tema della sua disabilità motoria in ordine alla professione di inviato che lo ha portato su innumerevoli e pericolosi fronti di guerra.

Quella che nella vulgata comune è una “diversità” è diventata per lui un’opportunità, anzi lo “strano dono” ha finito per dare senso compiuto ad ogni momento di un’esistenza vissuta tra mille pericoli nel nome della libera informazione. Con questo libro Piro ci insegna ad apprezzare meglio la vita, grazie alla condivisione delle sofferenze e delle gioie che quotidianamente è chiamato ad affrontare.

Outside the wire, inside the loop

«Sei davvero sicuro di volerci andare?» Pochi mesi dopo stavo trasformando in realtà il desiderio di un mio secondo viaggio in Afghanistan ma il mio direttore, solitamente cordiale con me, stava conducendo quel colloquio «finale» con un tono grave. Me lo aspettavo? Non così, ma ero comunque pronto ad affrontare una conversazione del genere.

Quando cerca di vivere come gli altri, quando cerca di fare il suo lavoro, di realizzare i suoi sogni, un disabile non affronta solo gli ostacoli che toccano ai normodotati. Deve invece fare i conti con la madre di tutte le barriere. Non sa bene quando la incontrerà ma a un certo punto se la troverà sulla sua strada.

«È pericoloso» mi dice il mio interlocutore. La frase pesa anche a lui, si vede. È la conferma che, in realtà, voleva dire: «È pericoloso per te».

Dietro una frase del genere ci possono essere due tipi di persone: quelle che si preoccupano per te, sinceramente, perché sanno che avrai delle difficoltà in più nel percorso che vuoi intraprendere (che si tratti di lavoro, di un’escursione in montagna, di una festa in discoteca o di un’immersione subacquea); e poi ci sono tutti gli altri, cioè quelli che si preoccupano per se stessi. Nella loro testa riecheggia la frase: «Se succede qualcosa, il guaio lo passo io…». È il peso delle responsabilità che ha un capo, in quanto firmatario, approvatore ultimo, responsabile del procedimento e ogni ruolo più o meno burocratico tra quelli che nessuno sa nemmeno esistano fino a che non accade un incidente.

L’assenza di uno «statuto della disabilità» in Italia rende tutto più difficile e complesso: per tutti, non solo per i disabili. In un Paese civile, un disabile dovrebbe essere aiutato a superare le difficoltà extra che deve affrontare nel tentativo di integrarsi. Sei un geometra, fatichi a muoverti soprattutto sui terreni sconnessi, ma vuoi coprire tutto il ciclo del tuo lavoro? Vuoi quindi visitare anche i cantieri? Un’azienda, un’istituzione, un ente dovrebbero fornire un aiuto al disabile per realizzarsi completamente come professionista, come lavoratore, ma anche per svolgere appieno il suo compito, quello per cui è pagato. Nel nostro esempio, un accompagnatore? Uno scooter elettrico?

Mancando norme, incentivi e uno statuto della disabilità in Italia, l’unica strada che un disabile può seguire per arrivare dove vuole è quella dell’ambiguità.

È la strada che ho scelto io, l’unica possibile.

«Sei davvero sicuro di volerci andare?» Sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Dopo un paio di schermaglie verbali tra me e il mio direttore, tiro fuori un frusciante rotolo di fogli A4: una sessantina, forse più, di e-mail che testimoniavano la meticolosità con cui avevo organizzato quella possibile trasferta in un Afghanistan che, tra l’altro, nel 2007 non era ancora l’inferno in Terra che sarebbe diventato di lì a qualche anno.

Il mio direttore, rinfrancato, mi dà fiducia: firma. Posso partire. Gliene sarò sempre grato pur sapendo che su di me pesano il doppio delle responsabilità rispetto a un altro inviato.

Devo fare di più e meglio, e utilizzare il doppio della prudenza (che non sempre è amica della qualità nel lavoro sul campo) perché so bene che ogni minimo incidente di percorso diventerebbe l’ultimo in termini di carriera e possibilità di futuri viaggi.

Anche solo un banale ritardo al satellite per il riversamento video avrebbe potuto pesare: «Lui non riesce a correre, è ovvio che poi buca e non manda in tempo il suo pezzo». Frasi che mi spaventano e che immagino nella mia testa prim’ancora di partire. Sono di fronte alla più importante occasione professionale della mia vita, una strada in salita la cui pendenza è per me doppia.

Prima di raccontarvi come andrà a finire quella trasferta, vi confesso un incidente.

Salendo su un Puma dell’esercito il mio piede sinistro resta brevemente bloccato in una piastra d’aggancio sul fondo del blindato. All’epoca non avevo il mio giubbotto antiproiettile personale, ne indossavo uno dei militari italiani, pesantissimo, che ti bloccava tutto il tronco ma per entrare nella botola di quel mezzo il corpo doveva compiere una rotazione da contorsionista. Sento il crac del ginocchio ma tiro fino a fine giornata quando, tornati dal pattugliamento a Camp Invicta, la base italiana alla periferia est di Kabul, un medico militare mi passa un tubetto di unguento anticontusioni. Ne ho dimenticato il nome ma ricordo le risate dei soldati abituati a vedersi propinare quella pomata per ogni malanno. E ora ridevamo insieme.

Non ho mai «certificato» quell’infortunio. Sono rimasto a lavorare e col tempo la contusione (per fortuna non era nulla di più grave) è guarita. Non ne ho mai fatto parola con nessuno tranne che con il mio operatore e amico Mario Rossi, che era con me.

A questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare che esiste, ed è forse più frequente, una situazione esattamente speculare ma opposta: lavoratori colpiti da una patologia invalidante (per esempio, infermieri con l’ernia cervicale o fisioterapisti con la sciatica) che non consente loro di svolgere certe mansioni. Eppure vengono comunque costretti a svolgerle dai loro datori di lavoro.

È vero, è un problema reale, frequente, e lo è maggiormente nel caso dei cosiddetti lavori usuranti, quando le patologie si sviluppano dopo anni e anni di sforzi fisici dati per scontati, anche se intanto l’età dei lavoratori è aumentata e il loro corpo si è indebolito. Ma nel sollevare questa obiezione si dimentica un nodo fondamentale.

Se un lavoratore viene costretto a svolgere mansioni per cui non è idoneo fisicamente o mentalmente ha strumenti per tutelarsi: in primis i riconoscimenti di percentuali di invalidità, le certificazioni di inabilità a certe mansioni e infine i giudici del lavoro.

Gli unici strumenti previsti dal quadro normativo italiano sono pensati per sottrarre il/la disabile alle fatiche della vita (quindi per risparmiargli la normalità della stessa), non per aiutarlo/a ad affrontarle al fine di realizzarsi e vivere appieno.

È il decrepito approccio italiano alla disabilità: non esistono strumenti per integrare il lavoratore disabile, ma solo per metterlo in una bolla separata dalla realtà. Un successo d’avanguardia negli anni Settanta, un fallimento oggi.

Abstract: Nico Piro, “UNO STRANO DONO”, Solferino, Milano 2024


L’autore

Nico Piro è un inviato del Tg3, scrittore e documentarista.

Ha concentrato i suoi sforzi nel testimoniare il destino degli ultimi, delle vittime delle crisi, dai conflitti alle migrazioni. Ha ricevuto dozzine di premi in Italia e nel mondo, tra questi: il Premio Ilaria Alpi, il Maria Grazia Cutuli, il Premio Luchetta, il Premio Speciale della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, il Premio Antonio Russo, il Premiolino, il Premio Alberto Jacoviello, il Paolo Frajese, il riconoscimento Mimmo Beneventano, il Premio Colombe d’Oro.

Tra i suoi libri: Se vuoi la pace conosci la guerra (HarperCollins); Kabul, crocevia del mondo e Maledetti pacifisti (People).



Uno strano dono

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