Pagina bianca
Ho sempre considerato il tema in classe l’ancora di salvezza per la sufficienza dei ragazzi, lo presento come un jolly e invece quel foglio protocollo spiazza ogni anno di più.
Se penso che fra le tracce proposte ce ne era una sulla incomunicabilità del disagio, beh, potrei trattare i compiti in bianco come lo svolgimento perfetto, ma non riesco a ironizzare più di tanto.
Molti dei miei ragazzi faticano a raccontarsi, o meglio: faticano a dare un nome a ciò che li attraversa. Non sanno che chiamare le cose con il loro nome significa iniziare ad arginarle.
Si raccontano sui social, hanno bisogno di farsi vedere per avere dall’esterno la certificazione della propria esistenza, ma si scordano di quanto siano complessi e si accontentano di una descrizione affidata alla semplificazione delle immagini.
Solo che le semplificazioni sono utili quando si ha poco tempo. Ma se un ragazzo deve raccontarsi in fretta, vuol dire che chi lo dovrebbe ascoltare corre troppo.
Se si guardano gli account degli adolescenti, ci si accorgerà che spesso hanno solo storie visibili per 24 ore e nemmeno un post. Parlano, ma non lasciano traccia. Sembra quasi che si stiano diseducando alla difesa della loro storia: trascurano (o cancellano?) il percorso fatto per arrivare dove sono.
Un processo inverso di quello che vede il genitore impegnato a segnare sullo stipite della porta le tacche di crescita del figlio con la data accanto. Un gesto all’apparenza inevitabile e abusato che invece vuol dire: “Guarda quanto sei cresciuto! Guarda quanti progressi hai fatto!”. E il bambino cresce così con il richiamo costante al percorso necessario per diventare adulto e, soprattutto, cresce con un testimone accanto.
Uno dei miei alunni oggi è stato capace di stare per due ore poggiato sul banco, il mento sotto le mani che schiacciavano il foglio e gli occhi fissi davanti a sé. È un ragazzone che dimostra più dei suoi quindici anni.
Gli ho chiesto più volte di provare a buttare giù anche in modo disordinato le idee che gli venivano in mente, gli ho proposto di cambiare traccia, ma lui niente. Non riusciva a capire come si fa a parlare di sé: poteva capire il senso cronachistico dello svolgere la traccia, ma non riusciva a capire cosa significasse raccontarsi.
Temeva di essere giudicato? Si domandava se potesse fidarsi o no? Si chiedeva che senso avesse che a scuola, anziché pretendere che imparasse la grammatica o la letteratura, qualcuno gli stesse chiedendo: “Raccontami come stai”? Sì, forse c’era un mix di tutto ciò, ma questo avviene quando non si è fatta esperienza di quanto sia importante imparare a parlare davvero di sé.
Fin dalle medie somministriamo ai ragazzi test a risposta multipla per spingerli ad essere veloci e performanti, li abituiamo a scrivere testi brevi, specifici. Si punta al risultato e si sottovaluta il percorso, luogo fisico delle storie, dei rapporti.
Da una parte, quindi, raccontare ed essere accolti; dall’altra ascoltare e accogliere: educare è la necessità di creare una relazione. È insegnare a riempire quella pagina bianca con ciò che è stato, ricordando però che non ci sono copioni da seguire, ma solo righe da vivere, con buona pace di Chat Gpt che non potrà mai prevedere come la nostra vita andrà davvero.
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