Quei lavoratori sfruttati più sacri del cibo in tavola
In occasione di Terra Madre, don Luigi Ciotti riflette sul rapporto tradito fra il cibo come fonte primaria della vita, e la sopravvivenza dignitosa di chi lavora per produrlo.
Se è vero che il cibo è sacro, perché fonte primaria della vita, ugualmente sacro dovrebbe essere considerato chi lo produce.
Così non è, in tante parti del mondo dove i lavoratori agricoli al soldo delle grandi proprietà terriere fanno la fame… con la schiena piegata sui campi che daranno da mangiare ad altri. L’agricoltura intensiva nel Sud del mondo, che in nome della produttività ha causato la distruzione di interi ecosistemi per far posto alle monocolture, non ha portato il benessere promesso alle popolazioni rurali. Che si sono viste in molti casi espropriate delle proprie terre e abitudini ancestrali, in cambio di una modernità segnata da povertà e oppressione.
Sarebbe però troppo facile indignarsi per queste ingiustizie lontane, senza considerare che situazioni simili le abbiamo proprio sotto il naso. Lo sfruttamento è una pratica diffusa anche nelle nostre campagne, in barba alle leggi che dovrebbero tutelare il lavoro, e ai controlli – sempre troppo pochi – per farle rispettare.
Il caporalato è una pratica antica che non accenna a declinare. Dopo il dramma di Satnam Singh, lasciato morire dissanguato in seguito all’amputazione del braccio da parte di un macchinario agricolo, altri braccianti sono rimasti vittime di incidenti, caldo e fatica, in questa stessa estate del 2024.
La commozione non è bastata, le promesse di maggiori controlli e pene più severe neppure. Non sono bastate le coscienze scosse e la rabbia verso i datori di lavoro disonesti. Perché tutto questo non basta? Perché più forte rimane l’impulso a dimenticare, per non dover cambiare. L’impulso a mantenere invariati i nostri stili di vita e consumo, ad approfittare dei prezzi bassi, delle offerte speciali, dei piatti consegnati a casa da corrieri anch’essi sfruttati.
Hyso Telharaj, Mohammed Abdullah, Mazhar Hussain, Camara Fantamadi, Nacer Messaoudi, Ioan Avarvarei, Dalvir Singh. Ci dicono qualcosa questi nomi? Eppure anche loro, come il povero Satnam, sono morti in anni recenti per condizioni di lavoro insostenibili.
Dal Nord al Sud dell’Italia, le loro storie coprono numerose regioni e coltivazioni: ogni campagna ha i suoi «martiri» dimenticati. Persino nelle ricche colline delle Langhe, che producono le uve per vini fra i più costosi al mondo, si è scoperto ultimamente un sistema di lavoro segnato da omertà e violenze. Sono forme di abuso che vengono dal passato, ma oggi ancora più penose. Un tempo gli sfruttati erano infatti persone «come gli altri»: italiani poveri che parlavano la stessa lingua e abitavano gli stessi paesi di chi li sfruttava.
Oggi sono invece spesso persone che vengono da lontano: fuggite da una condizione di miseria per ritrovarsi a viverla di nuovo, sotto un diverso cielo. Parlano lingue sconosciute e vivono segregate in tuguri e baraccopoli fuori dai confini della comunità. Finché non le inghiotte qualche tragico fatto di cronaca, possiamo quasi illuderci che non esistano, non siano un problema reale. E invece esistono, sono esseri umani come noi, con i nostri stessi diritti e speranze.
Oltre che nelle campagne li vediamo soffrire e morire in altri settori, da quello edile, al manifatturiero, alla logistica. Ma facciamo poco o nulla per proteggerli, forse a causa di un razzismo strisciante e inconfessato, forse per non intaccare interessi economici forti ed equilibri politici delicati, dei quali rimangono per altro vittima anche tanti lavoratori italiani. Papa Francesco ha parlato in proposito di «lavoro schiavo».
Caporali fa rima con criminali: è facile dare a loro tutta la colpa, lavandosene le mani. La realtà però è più complessa. C’è il ruolo delle mafie e quello degli imprenditori votati soltanto al profitto, che applicano una mentalità mafiosa nella gestione delle proprie attività.
Ci sono i rispettabili manager ai posti di comando della grande distribuzione, della grande industria, della cantieristica, che attuano politiche spregiudicate sui prezzi e i subappalti, pur sapendo quanto incidano sulle condizioni di lavoro, specialmente per i lavoratori più fragili. Ci sono politici che speculano sulle paure della gente, e usano il tema dell’immigrazione come arma di propaganda. Promuovendo leggi che ottengono tutto il contrario di ciò che vorrebbero: insicurezza, rabbia sociale, illegalità. C’è la dimensione locale e quella internazionale. Ci sono contadini ridotti alla fame non più soltanto dalle multinazionali del cibo, ma anche dal cambiamento climatico, dai disastri ambientali e dalle carestie che lo accompagnano.
Popolazioni destinate a ingrossare le file di quelli che chiamiamo «migranti ambientali»; Casacomune, una scuola di formazione sui temi dell’ecologia integrale promossa dal Gruppo Abele, studia da tempo questi fenomeni per incoraggiare una presa di coscienza collettiva.
Senza cibo non c’è sopravvivenza, per gli esseri umani. Eppure in troppi oggi non sopravvivono ai meccanismi che regolano la produzione e distribuzione degli alimenti. È una contraddizione in termini, dura… da digerire. Ma «sentirsi sullo stomaco» le ingiustizie è appunto il primo passo per iniziare a porvi rimedio.
* Presidente Gruppo Abele e Libera
Fonte: La Stampa
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