Siani e la Mehari. Il lungo viaggio della memoria
Oggi che la Mehari inizia un altro viaggio, mi tornano in mente quei drammatici momenti di quella sera di 39 anni fa.
Chi sa cosa avrà pensato Giancarlo seduto al posto di guida della sua Mehari verde, un’auto di plastica senza nessuna protezione, mentre spegneva il motore e sentiva i passi dei sicari che si avvicinavano alle spalle. Era un bersaglio facilissimo.
Chi sa cosa avrà pensato ?
E chi sa se potevamo in qualche modo proteggerlo.
Questo è il grande rammarico che mi porto dentro da quella sera. Non essermi accorto di nulla, non aver percepito il pericolo. Non aver fatto nulla per provare a salvarlo. Non capivo quanto i suoi articoli, che pure leggevo sempre con attenzione, e anche con un pizzico di orgoglio, fossero così pericolosi.
Non pensavo che fare il giornalista a Napoli negli anni 80 potesse essere così rischioso.
E non so immaginare cosa stesse pensando in quei minuti, avrà avuto paura ? Avrà capito che cercavano proprio lui?
Di certo non ha potuto accennare nessuna reazione, è rimasto fermo lì, colpito alle spalle, seduto, solo un po’ piegato sul fianco, nella sua auto. Come se non volesse dargliela vinta.
Di certo però non poteva immaginare che quella macchina di plastica, sarebbe diventata un simbolo di legalità, riconosciuta ancora oggi dopo 39 anni, come “l’auto del giornalista”.
Non poteva immaginare che Marco Risi e Andrea Purgatori, che neanche lo conoscevano, avrebbero raccontato in uno splendido film gli ultimi giorni della sua breve vita e che proprio la sua Mehari ricomparsa “miracolosamente” e inaspettatamente nella nostra vita recuperata da un campeggio nell’isola di Filicudi ormai abbandonata e diventata di color ciclamino, sarebbe diventata la protagonista del film Fortapàsc.
Non poteva sapere che il sindaco di Napoli nel 2009 e poi il sindaco di San Giorgio a Cremano oggi l’avrebbero accolta in una sala museale insieme a 272 foto di vittime innocenti della criminalità in Campania.
Non poteva sapere Giancarlo che chi quella sera decise di ucciderlo, in realtà non gli ha tolto definitivamente la parola, perché lui continua a parlare attraverso la voce di tanti ragazzi che si avvicinano commossi alla sua storia e leggono ancora oggi con interesse i suoi coraggiosi articoli.
Non poteva sapere neppure che sarebbe diventato protagonista, lui così giovane e ancora giornalista precario, di tanti racconti ispirati a lui e di tante inchieste giornalistiche sulla mafia.
Né poteva sapere che il PM, Armando D’Alterio che ha portato alla sbarra mandanti e esecutori, nella sua requisitoria parlasse di un “metodo Siani”, per definire un giornalismo d’inchiesta serio, preciso, documentato, coraggioso che intimoriva pericolosi e spietati clan mafiosi.
No, lui non lo poteva sapere.
Esporre la sua Mehari e le foto dei volti di tante vittime innocenti è la nostra risposta al male, è il nostro modo per esorcizzare il dolore con la speranza che un vento magico prima o poi possa spazzare via la sofferenza mia e dei tanti fratelli, padri, madri che ancora oggi piangono i loro familiari.
Ricordare è la nostra “prova di forza” contro la criminalità mafiosa come dice don Ciotti, perché i boss contano sull’effetto dell’abitudine, della dimenticanza, e noi invece vogliamo ricordare sempre, per non dargliela vinta.
Ma la sala della Mehari e della memoria è anche un richiamo forte, deciso, potente alla politica, a tutte le istituzioni affinché ognuno faccia la sua parte, ai cittadini che sappiano scegliere di stare dalla parte del bene, ai mezzi di informazione, alle grandi case di distribuzione, ai produttori, agli sceneggiatori che siano capaci di raccontare il male anche dalla parte delle vittime e non solo dei carnefici.
Perché è vero che oggi le mafie sono imprenditoriali, tecnologiche e transnazionali, ma se tutti ci impegniamo nella stessa direzione, ognuno con le sue forze e nel suo ambito, possono essere sconfitte e il nostro dolore attenuarsi, perché di certo non scomparirà mai.
E io ancora oggi 39 anni dopo che ogni volta che viene giorno, ogni volta che ritorno, ogni volta che cammino, ogni volta che mi guardo intorno e ogni volta che mi sento solo, mi sembra di averti vicino, non so cosa hai pensato in quegli ultimi istanti della tua vita, mentre rientravi a casa e ascoltavi Vasco Rossi, sereno e felice.
Fonte: Il Mattino, 22/09/2024
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