Legnano intitola a Rosario Livatino l’ex tribunale: “Simbolo dell’impegno per la legalità”
Per ricordare Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” freddato dalla Stidda 34 anni fa, è stata allestita anche la mostra “Sub tutela dei” a Palazzo Leone da Perego.
“Quando moriremo, nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Con queste parole Legnano ha scelto di ricordare Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” freddato dalla Stidda mentre, senza scorta, percorreva la strada verso il tribunale di Agrigento, al quale sabato 21 settembre è stato intitolato l’ex Tribunale di via Gilardelli nel perimetro di “Passi di legalità”, il pacchetto di azioni che Palazzo Malinverni sta portando avanti per promuovere la legalità e il contrasto alle mafie.
Progettato negli anni ’80 dall’architetto Guido Canella, l’ex tribunale dal collaudo nel 1993 fino al 2013 ha ospitato la sede distaccata del Tribunale di Milano. L’edificio, peraltro, è solamente un terzo di quello complessivamente progettato in origine, che prevedeva la realizzazione di un’altra ala simmetrica a quella esistente rivolta verso via Matteotti e, fra i due rami, uno spazio destinato a piazza coperta.
L’ex tribunale di via Gilardelli, che oggi, dopo un intervento di riqualificazione che ha ridisegnato gli spazi interni, ospita alcuni uffici comunali e fa di fatto da succursale al municipio, con l’intitolazione è diventato un simbolo cittadino della lotta alle mafie contribuendo a mantenere vivo il ricordo del “giudice ragazzino” – per riprendere la controversa definizione coniata dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga – Rosario Livatino.
«Quello di oggi è un momento simbolico – ha sottolineato durante la cerimonia di intitolazione il sindaco Lorenzo Radice -: il verbo da cui nasce la parola simbolo indica un movimento che unisce qualcosa di materiale e tangibile a qualcosa che non c’è. Questa intitolazione è interessante proprio per questo: unisce la nostra comunità a qualcosa che non è qui ma è sempre con noi, alla dimensione dell’impegno, alla dimensione della legalità e della giustizia, a quell’impegno che stiamo vivendo come territorio per creare presidi di legalità. Questo simbolo serve per dire che noi vogliamo andare avanti a tenere alta la voce, a rompere i silenzi, a ricordarci tutti i giorni, quando passiamo da questa porta, che non siamo soli e che se tutti noi teniamo alta l’attenzione e teniamo vivo il ricordo di chi ha sacrificato la propria vita, lo facciamo perché vogliamo una società come quella che volevano loro: una società giusta, una società viva, una società libera, quella società che ha disegnato la Costituzione italiana».
«Chi si ricorderà di Rosario Livatino fra tre mesi? Lo scrisse Giovanni Falcone su La Stampa dopo il suo assassinio – ha aggiunto Nando Dalla Chiesa, politico, accademico, scrittore e fondatore e direttore dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università degli Studi di Milano -. Agrigento non era sotto i riflettori, la mafia in Sicilia era soltanto a Palermo e i giudici che si conoscevano erano quelli che combattevano la mafia a Palermo: gli altri no, soprattutto se erano riservati come Rosario Livatino. In più c’era un clima di diffidenza verso i “giudici ragazzini”. C’era silenzio anche nel palazzo di giustizia di Agrigento. Quando si tratta di difendere la verità, nessuno deve fare un passo indietro, lasciando esposte le persone più coerenti, quelle disposte a battersi per il bene comune. Questa targa è un simbolo che parla, non può essere un simbolo inanimato che non comunica nulla. Sono passati tre mesi, sono passati gli anni, e abbiamo smentito Falcone: abbiamo imparato da Falcone che il racconto è importante, e questa targa è la dimostrazione che scrivere, parlare, ricordare è costruzione di civiltà, perché le democrazie si tengono sul racconto».
Come il racconto di Rosario Livatino arrivato durante la cerimonia dalle parole di Nicoletta Guerrero, oggi presidente della sezione GIP del Tribunale di Genova, che da pretore mandamentale, all’inizio della sua carriera, ha lavorato con Livatino in Sicilia e per dieci anni ha lavorato anche all’ex tribunale di Legnano. «I “giudici ragazzini” eravamo noi – sono state le parole di Guerrero -: all’epoca in tantissimi siamo stati destinati alla Sicilia, alla Sardegna, alla Calabria. Livatino, che aveva 38 anni quando è morto, era un uomo retto, corretto, era un punto di riferimento per tutti noi. Mi ha insegnato a fare il giudice nel modo in cui poi l’ho sempre fatto: è stata un’esperienza unica lavorare con lui, come dicono tanti colleghi non è mica da tutti essere stato collega della porta accanto di un santo».
Chi era Rosario Livatino
Nato nel 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento, Livatino dopo la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo diventa vicedirettore in prova dell’Ufficio del Registro. Diventato magistrato, nel 1978 viene assegnato al Tribunale di Caltanissetta e poi, un anno dopo, a quello di Agrigento, come sostituto procuratore, ruolo che ricoprirà fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere. Sono gli anni in cui Livatino alza il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle e si dedica ad una serie di indagini su una serie di episodi di corruzione che passeranno alla storia con la Tangentopoli siciliana. Il fiore all’occhiello, però, resta probabilmente l’inchiesta che avrebbe poi portato al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera.
Proprio sulla strada tra Canicattì e Agrigento la mattina del 21 settembre 1990 Rosario Livatino troverà la morte a soli 38 anni: all’altezza del viadotto Gasena, che oggi porta il suo nome, la sua auto verrà infatti affiancata e speronata da un’altra vettura da cui verranno esplosi colpi di pistola. A nulla varrà il tentativo di fuga nonostante le ferite: inseguito dai killer, Livatino verrà ucciso. Sul luogo dell’omicidio arriveranno, tra gli altri, da Palermo arrivarono il procuratore aggiunto Giovanni Falcone e da Marsala il procuratore Paolo Borsellino. Per arrivare alla verità sulla sua morte ci vorranno tre processi. Il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento è stato proclamato beato.
“Sub tutela dei”: a Legnano una mostra per il “giudice ragazzino” freddato 34 anni fa dalla Stidda
La mostra, visitabile ad ingresso libero nei fine settimana, è divisa in quattro sezioni con testi, immagini, video e un audio che rievoca l’agguato e che introduce al percorso.
Taglio del nastro a Legnano per “Sub tutela Dei – Il giudice Rosario Livatino”, mostra di proprietà del Meeting di Rimini allestita per la prima volta nel 2022 e dedicata alla figura del “giudice ragazzino” freddato dalla Stidda nell’Agrigentino 34 anni fa, che sarà visitabile a Palazzo Leone da Perego fino al prossimo 6 ottobre, a corollario dell’intitolazione dell’ex tribunale di via Gilardelli al magistrato.
«L’idea di queste iniziative è nata da un gruppo di associazioni che comprendeva Libera, ACLI, Azione Cattolica, Chiesa di Legnano e Polis a luglio 2023 – ha spiegato il referente del presidio di Legnano di Libera Gianpiero Colombo -. Come Libera l’abbiamo sostenuta con forza perché guardiamo alla vita di Livatino come un esempio di grande coraggio e coerenza civile. L’impegno instancabile quotidianamente rinnovato nel combattere ogni forma di sopruso, ogni intolleranza, ogni prevaricazione, ogni atto di illegalità, trova in Rosario Livatino un fulgido esempio a cui anche le giovani generazioni potranno guardare, consapevoli che la strada dell’impegno e della coerenza varrà sempre la pena di essere imboccata e percorsa. Per Libera il giudice Livatino ha avuto un ruolo fondamentale anche perché fu uno dei primi giudici del Tribunale di Agrigento ad applicare la legge Rognoni – La Torre del 1982 sul sequestro e la confisca dei beni, intuendo che veri mafiosi fosse uno strumento di grande importanza nella lotta alle organizzazioni mafiose, com’è ancora oggi anche nel nostro territorio. Le parole che sono state inserite nella targa dedicata a Livatino (“Quando moriremo, nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma credibili”, ndr) sono tra quelle che a noi stanno più a cuore: sono parole che ci richiamano ad un impegno responsabile per la giustizia sociale, per la dignità e i diritti delle persone, a relazioni autentiche e all’etica dei nostri comportamenti nella nostra vita privata e pubblica».
«Questa mostra è una bellissima testimonianza – ha aggiunto Salvatore Insegna, cugino del giudice assassinato dalla criminalità organizzata -, e spero che venga visitata da molti giovani perché abbiamo bisogno di testimoni e di coscienza di ciò che è accaduto e di ciò che sta accadendo. Per Rosario non esisteva il concetto di antimafia, la giustizia doveva essere propositiva: lui era pro giustizia, pro uomo, per lui anche davanti al più accanito dei mafiosi e dei delinquenti, e lui ne ha conosciuti, bisognava ricordarsi che si trattava di un essere abitato da Dio, e la dignità umana non va mai calpestata. Essere pro giustizia è favorire la giustizia in tutte le sue forme e ognuno di noi può farlo nel suo ambito lavorativo, non serve essere giudici o avvocati o appartenere alle forze dell’ordine».
La mostra, visitabile ad ingresso libero nei fine settimana dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 19, è divisa in quattro sezioni con testi, immagini, video e un audio che rievoca l’agguato e che introduce al percorso. La prima sezione è dedicata alla formazione personale di Livatino e al contesto sociale e umano in cui è cresciuto e vissuto; la seconda sezione è invece dedicata alla figura di Livatino in qualità di giudice e al particolare contesto storico-criminale entro il quale era chiamato ad operare. La terza sezione, poi, racconta del martirio e della beatificazione di Livatino e di Piero Ivano Nava, testimone chiave nei processi per l’assassinio del giudice; la quarta sezione, infine, è incentrata sull’eredità di Livatino, dal ruolo della Chiesa nella resistenza alla mafia alle testimonianze di donne e uomini che, in vari modi, lo hanno conosciuto. In esposizione anche le riproduzioni di due lettere, una scritta da uno dei mandanti dell’omicidio, Salvatore Calafato, l’altra da uno degli esecutori, Domenico Pace.
La Città di Legnano (MI) onora la memoria del giudice Rosario Livatino
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