Un commissario straordinario per la Rai, a termine
«Consiglio sì, consiglio no», per parafrasare Elio e le Storie Tese. Dopo numerosi rinvii e variegate polemiche (non più da prima pagina, essendo il tema assai sceso nella graduatoria delle priorità) si riaffaccia ora la questione del vertice del servizio pubblico radiotelevisivo. In proroga dallo scorso fine maggio, il consiglio di amministrazione la cui presidente Soldi si è -tra l’altro- dimessa ad agosto procede per inerzia.
La campanella del voto per i quattro componenti di emanazione parlamentare ha fin qui suonato a vuoto. Ora vi è un’ulteriore data immaginata: il prossimo giovedì 26 settembre.
Sarà vera gloria? C’è da dubitarne, perché le forze di opposizione hanno unitariamente (la Rai prefigura sempre qualcosa) sottolineato che prima di simile voto serve una vera riforma della cosiddetta governance dell’azienda. Quest’ultima è figlia di una pessima leggina voluta dall’allora capo del governo Renzi (n.220) alla fine del 2015, che ribaltò quarant’anni di giurisprudenza costituzionale, attribuendo a Palazzo Chigi la designazione di ben due amministratori ivi compreso l’amministratore delegato fornito di pieni poteri.
L’unica certezza è il consigliere Di Pietro eletto dai dipendenti, che ha preso in corsa la non facile eredità del compianto Riccardo Laganà.
La proposta delle opposizioni è giusta e condivisibile, essendo un’eventuale scelta nei prossimi giorni in partenza sub iudice: si approssima la decisione del Tribunale amministrativo del Lazio fissata per il 23 ottobre, scaturita dal ricorso di taluni autocandidati al Cda, coordinati dall’autorevole accademico Roberto Zaccaria, già parlamentare e presidente della Rai medesima; e manca meno di un anno all’entrata in vigore dell’articolo 5 del Regolamento sulla libertà dei media, assai difforme rispetto all’attuale normativa italiana.
Non solo. Vi è un profluvio di atti provenienti dall’Europa, a cominciare dalla relazione sullo Stato di diritto per continuare con documenti omologhi, che hanno la stessa impostazione. E l’Italia è vigilata speciale, come l’Ungheria, per numerose violazioni degli indirizzi democratici tesi al pluralismo e all’indipendenza, nonché al superamento dei conflitti di interesse.
Se si varasse un Cda monco, visto che le opposizioni non intenderebbero partecipare a tale rito, per di più con il pericolo di una inevitabile decadenza a fronte degli indirizzi di Bruxelles vicini alla loro entrata formale in scena, si tratterebbe di un colpo di mano. Neppure accompagnato da tattiche astute.
Non per caso l’area governativa -Meloni prima firmataria- si è affrettata a vergare un testo ugualmente proteso a immaginare una riforma attenta pure al contesto tecnologico in rapida trasformazione. Peccato che il risvolto politico sia confliggente con la dichiarazione dei gruppi contrari: riforma sì, ma subito i nomi. Ma, oltre al resto, come pensa la maggioranza di trovare i consensi per la figura del/la presidente, sulla quale si deve raggiungere il placet dei due terzi in commissione?
Insomma, la situazione è incartata: lost lost.
Non sarebbe preferibile assumere una decisione rischiosa e tuttavia di buon senso: istituire a termine un/a commissario/a, con il mandato di gestire pro tempore una Rai già in evidenti difficoltà? Che fine farà il canone di abbonamento e sarà confermata la misura compensativa varata un anno fa? E la sorte della strategica società degli impianti RaiWay? E tanto ancora, ovviamente.
Sarebbe un modo per ovviare ad uno stallo mortifero e per evitare imposizioni ruvide e non consensuali.
Una simile personalità – magari presa dallariserva della Repubblica costituita dagli ex presidenti della Corte costituzionale- potrebbe svolgere il compito del traghettatore e facilitare il dialogo sulle ipotesi di riforma. Giacciono in parlamento proposte di legge e l’European Media Freedom Act fornisce imput preziosi.
Una soluzione del genere richiederebbe, ovviamente, un passaggio presso la commissione di vigilanza e un decreto istitutivo illuminato e non fazioso.
È un sogno proibito? Forse, ma il crudo realismo quotidiano è un incubo.
Fonte: il manifesto
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