Fuori e dentro al campo. Il “centrattacco” che dribbla gli anni nel segno di Basaglia
“Oh oh oh, che centrattacco”, cantava il Quartetto Cetra nel 1959. Il quartetto (tre uomini, una donna) era un gioiellino della musica leggera di quell’epoca. Fatto di garbo e di ironia.
La canzone fu la prima a mettere in musica il mito del calcio. Se qualche ragazzino negli oratori segnava un gol (o lo sbagliava) trovava chi gli intonasse la canzone per complimento o beffa feroce. E il nostro protagonista – il suo nome è Carlo – che di gol ne faceva, subito si identificava allora nei grandi centravanti del tempo. C’era solo da scegliere: Nordhal, Charles, Vinicio, Angelillo; anche se la canzone rinverdiva il mito di Levratto (“ogni tiro va nel sacco”), centrattacco della nazionale olimpica sotto il fascismo.
Ecco, Carlo aveva il tiro forte, preciso, ma non giocava in una squadra. Si offriva a quelle che incontrava a scuola o in università. E regolarmente dopo il primo provino vi veniva accolto. Del calcio sapeva tutto, anche se la sua vera passione era la medicina, con quel nuovo ramo in crescita, la psichiatria, che lo affascinava.
A Palermo, dove lo conobbi, fu il riferimento dei giovani studenti che seguendo le teorie di Franco Basaglia si battevano per la chiusura dei manicomi. Sta di fatto che la raccolta firme per la loro abolizione diventava spesso la premessa per conoscere adolescenti e giovanissimi con i quali ritrovarsi su un campo di calcio.
Iniziò lì la sua fama di anziano e poi “vecchietto” di squadra; di qualunque squadra in cui andasse a giocare perché dopo gli “anta” si diradarono i coetanei, specie sui campi a undici. Fu così anche a Collegno, vicino Torino, dove pure andò ancora giovane come medico al celebre ospedale psichiatrico. Fu così a Catanzaro dove da primario ebbe la direzione del dipartimento di psichiatria della città, rivelandosi (tra parentesi) l’unico medico disposto a fare da relatore a un convegno su mafia e sport tenuto nel 2015 all’università di Milano. Ed è così anche oggi, che di anni ne ha 81.
Sissignori, a questa età veneranda Carlo Curti il basagliano continua a fare il centrattacco tra ventenni e quarantenni, invitato nelle tipiche squadre che si fanno e si sciolgono nel giro di un anno. Accolto dal risolino dei più giovani quando lo vedono entrare in campo, poi ammirato con stupore quando lo vedono giocare.
Per il senso della posizione, la precisione del tiro, il colpo di testa. Per gli assist e soprattutto i gol. Non è quel che si dice un motorino, e forse non lo è mai stato, ma gioca e corre.
Con che maglia gioca? Anche se gli piacerebbero tanto quelle del Catanzaro o del Milan (le sue squadre del cuore), si è rassegnato a farne senza, data la sua condizione di “zingaro a parametro zero”. Bianca o rossa o blu, indossa qualsiasi maglia serva. Anzi, per non sbagliare si porta sempre una pettorina nello zaino.
I due figli (tra i 45 e i 50) sono increduli. “Il bello è che si allena. Va a giocare con un gruppo di amici tutte le settimane su qualsiasi campo sia possibile nel raggio di 30 chilometri da Catanzaro. Sempre tra squadre organizzate sul momento. Quando decidono di fare una partita, gli amici sanno che c’è il centrattacco di ottant’anni che basta telefonargli e arriva. Con lo spirito agonistico e le arrabbiature di un professionista. E non transige sull’impegno, anche quando è in squadra con noi. Fa così anche quando va a Roma. Anzi”, aggiungono, “ormai la prima cosa che si prende con la valigia è la sacca del calcio”.
Perciò succede, camminando con lui per le vie di Catanzaro, di imbattersi in qualcuno che gli faccia i complimenti per il gol dell’ultima partita. E se qualcuno gli dice “che centrattacco” si sente un eroe.
Diceva Borges che ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa lì ricomincia la storia del calcio. Ecco, io lo penso quando la moglie (ovvero mia sorella Simona) mi dice che “Carlo è fuori. È andato a giocare a pallone”.
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 16/09/2024
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