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Ritorno a scuola. Nuovo anno, nuovo inizio?

Donatella D'Acapito il . Costituzione, Cultura, Diritti, Giovani, Società

Primo giorno per loro, primo giorno per me. La campanella è suonata puntuale alle 8, qui nel centro di formazione professionale.

Si è aperto un nuovo anno ma le paure, i rituali, le facce, sembrano quelle di sempre. Per loro, gli studenti, e per me, che starò pure dall’altra parte della cattedra, ma non per questo sono esente dallo stesso turbinio di incertezza che li accompagna.

Guardo questi ragazzi e cerco di intuire chi mi darà più filo da torcere e chi, invece, sarà da difendere. Perché sì: l’insegnante i primi giorni deve capire chi ha davanti. E non tanto per i ragazzi, quanto per se stesso. Chissà quanti immaginano il senso di solitudine che si prova…

Soprattutto all’inizio, il docente rischia di essere il nemico perché portatore di regole. In una realtà caratterizzata dalla scarsa scolarizzazione, il docente è ancor di più il nemico: dà regole, richiede attenzione e, soprattutto, è di intralcio all’instaurazione di un potere che qualcuno fra di loro vorrebbe imporre.

Sembra una descrizione fumettistica, ma la polarizzazione a cui ho assistito negli anni è reale. Qui i ragazzi devono mantenere lo status che hanno in strada e non possono piegarsi a un adulto. Non possono dare segni di apertura, perché sarebbero percepiti come segni di cedimento. Non possono mostrarsi interessati, se non nella misura in cui l’interesse è finalizzato al loro tornaconto.

Ci vuole tempo perché le cose si smussino e in questo lavoro quotidiano, purtroppo, si lima anche la parte buona di molti di loro. È facile dire a un ragazzo che non deve cedere ai bulli della classe, ma quello è il gruppo in cui dovrà vivere (e sopravvivere) per almeno nove mesi, un periodo che sembra troppo lungo da gestire a quell’età.

Ho osservato i ragazzi che mi passano accanto, ma sono pochi i nuovi che hanno scelto di incrociare il mio sguardo – i più sono scivolati lungo i corridoi puntando gli occhi oltre, ostentando superiorità e noncuranza. Più semplice è stato con quelli che già conoscevo, perché nel bene o nel male le misure erano state già perese.

Ma cosa manca alla scuola per essere davvero un punto di riferimento, un’occasione di crescita, per i ragazzi? Perché noi adulti non ci siamo più per loro? Perché penso di essere ormai troppo grande per relazionarmi con loro?

Me lo chiedo e, mentre lo faccio, mi rendo conto che il mio sentire nasconde una intolleranza nei confronti della maleducazione e della prepotenza che vedo dilagare fra le nuove generazioni. Loro non riconosco i miei valori come valori; io non riesco a gestire questa loro indifferenza al disappunto o ai richiami dei grandi e allora penso che l’equazione debba finire con il mio “essere fuori quota”. Ma se ogni adulto scegliesse di mettere un muro davanti a questi ragazzi, a cosa arriveremmo?

So che la realtà di cui parlo non è la realtà di tutti, ma purtroppo è quella da “periferia del mondo” spesso buona solo per un duplice utilizzo: o come sfondo per le serie cult da cui i ragazzi traggono modelli sbagliati, oppure come passerella politica.

Le generalizzazioni non sono né utili né veritiere, visto che ci sono associazioni o singole persone che suppliscono ai vuoti educativi e affettivi che ci sono. Però resto colpita dalla miopia di chi crede che per questi ragazzi esiste solo una strada per uscire dal guado in cui sono, oppure niente. Parliamo di dispersione scolastica, di un surplus di avvocati e di carenza di manodopera specializzata, eppure nelle periferie romane le scuole professionali non vengono considerate scuole e ti lasciano addosso pure lo stigma di averle frequentate quando cerchi un lavoro.

Di questo i ragazzi sono consapevoli, così come ne sono consapevoli le famiglie. La famiglia, appunto: quella che dovrebbe essere la prima agenzia educativa e invece risulta spesso assente, disfunzionale o formata da genitori che non hanno gli strumenti per seguire i propri figli in una società non sempre edificate.

Mettendo insieme i pezzi, vien quasi da solidarizzate con questi adolescenti che non sanno nemmeno come si fa a gestire in modo sano la rabbia.

Don Bosco diceva che in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene, e la mia esperienza lo conferma. Ma chiediamoci qual è il costo da sostenere, in termini emotivi, sia per loro che per noi. Chiediamoci cosa facciamo davvero per essere educatori o insegnanti.

Anno nuovo, domande solite ma non vecchie. Le risposte verranno, si spera, ma intanto è necessario sentire la responsabilità di incidere sul futuro, loro e nostro. Maneggiare con cura.

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