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Dalla Chiesa: cosa penso di ciò che papà scrisse ad Andreotti

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Domenica scorsa 7 settembre questo giornale ha pubblicato una lettera inviata nel settembre 1979 da mio padre, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, all’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Partita da un’epoca lontana quella lettera è planata casualmente su di noi giusto nei giorni dell’anniversario del suo assassinio in via Carini a Palermo (3 settembre 1982), finendo automaticamente tra i “misteri della Repubblica”, espressione di successo per definizione.

Ma quale sarebbe qui il mistero? Vediamo.

La lettera, a mio avviso autentica, può essere divisa in tre parti. La prima è un elogio di Andreotti. La seconda è la confessione, da parte di mio padre, di aspirazioni che egli spera di realizzare con il beneplacito dello stesso Andreotti. La terza è la denuncia del ruolo che egli è costretto a “recitare”.

L’elogio di Andreotti, dunque. Ci sta tutto. Mio padre ne è stato nominato alla testa della speciale struttura di coordinamento antiterrorismo costituita dopo la morte di Aldo Moro e le dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Da lì ha ottenuto importanti risultati, un di più di fiducia pubblica, la possibilità di contribuire a raggiungere obiettivi cruciali per il Paese. Gratitudine, dunque.

Gratitudine che però nemmeno tre anni dopo non gli impedirà di dare allo stesso Andreotti “la certezza che”, andando in Sicilia, non avrebbe “avuto riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori”. Si rivelò insomma non “uomo di Andreotti” ma “uomo dello Stato”. Andreotti, come sappiamo, non la prese bene. Tutto chiaro, tutto già saputo. Nuovi “misteri della Repubblica”?

E andiamo alla confessione circa le aspirazioni. Che erano molto semplici: rientrare nella vita territoriale dell’Arma, senza restare costretto all’infinito in strutture separate. Era il suo desiderio e non lo tacque a nessuno. Perciò lo ricorda allo stesso Andreotti, l’elogio del quale vuole forse renderlo più disponibile verso di lui, evitando che viva quella richiesta come un atto di distacco o ingratitudine.

Aveva anche un motivo personale per coltivare questa aspirazione. Ossia ripetere la carriera di suo padre, già vicecomandante dell’Arma e suo massimo modello di militare e carabiniere. Così si adoperò a spiegare che il ritorno nell’Arma territoriale non avrebbe indebolito l’efficacia della sua lotta al terrorismo. E infatti dopo due mesi venne accontentato, mandato a comandare la Divisione Pastrengo, che allora aveva giurisdizione su tutta l’Italia settentrionale; da lì condusse comunque importanti operazioni contro le Brigate Rosse e Prima Linea, tra cui quella del pentimento di Peci. Di nuovo tutto già saputo e scritto, e in più sedi.

E andiamo infine alla frase che dovrebbe essere la prova regina del mistero. Il fatto che egli si dicesse costretto a “recitare un ruolo” (dal quale voleva uscire). Ossia, ecco la spiegazione, il ruolo del salvatore della patria, alla testa di una struttura speciale; incarico che consentiva di dimostrare, in re ipsa, che il governo stava facendo tutto il possibile per sconfiggere il terrorismo. Da un lato era gratificato dalla fiducia, dall’altro gli andava stretto quell’uso del suo nome.

Lo scrisse di suo pugno sul proprio diario anche nei mesi dell’invio a Palermo, dopo l’assassinio di Pio La Torre: “uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere la mafia, ma all’uso e allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti”, “pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità (…) ed anche nei pericoli fisici”. Anche qui tutto tragicamente noto, dai saggi storici agli atti giudiziari.

Il fatto è che dopo ormai più di 40 anni quegli eventi sono passati attraverso il giudizio della storia, per avventurarsi seriamente nella quale è vivamente consigliato di studiare, studiare e poi ancora studiare. Non è più come agli inizi, quando a ognuno era permesso di fantasticare. Ora i benintenzionati ne prendano atto: ci sono vincoli logici e storici insuperabili.

E a proposito di storia. Lo scritto che fa da corredo a quella lettera cita frequentemente un maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo, improvvisamente promosso testimone dei tempi da Francesco Cossiga dopo l’avviso di garanzia ad Andreotti del 1993. Lui che dopo via Carini se ne era stato zitto e quieto senza presentarsi ad alcun magistrato, scoprì dopo quell’imprimatur presidenziale di avere tanto ma proprio tanto da dire. E tanto disse, spesso tra il tra il faceto e il grottesco. Qualcuno gli credette pure.

Sulla sua credibilità non vale nemmeno la pena rispondere nel merito. L’ho già fatto abbondantemente quasi trent’anni fa nella lunga introduzione a “In nome del popolo italiano. Autobiografia postuma” di mio padre.

L’ho fatto, soprattutto, deponendo per quattro ore su mia richiesta davanti ai magistrati di Palermo (a proposito, perché non pubblicare integralmente quella deposizione?).

Certo qualche mistero in questa storia c’è. E il principale è il seguente: perché venne costruito quel “supertestimone”, portato spudoratamente in prima serata in televisione su Rai 3 e lì presentato – sentite, sentite – come “il braccio destro di dalla Chiesa”? Come fu possibile? Chi vorrà scavare in questo mistero politico, televisivo e giudiziario?

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 14/09/2024

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