Enzo Baldoni, il giornalista che non scriveva per sentito dire
Il 26 agosto 2004 Enzo Baldoni veniva ucciso in Iraq da una banda jihadista dopo cinque giorni di prigionia. Baldoni arrivò a Najaf, la città santa degli sciiti, con la Croce Rossa Italiana – a Milano era stato volontario dell’ente umanitario -, per portare acqua e medicine alla popolazione.
A distanza di vent’anni sulla morte del giornalista non si sa nulla se non la richiesta dei sequestratori di ritirare le truppe italiane dall’Iraq entro quarant’otto ore altrimenti lo avrebbero ucciso. Così avvenne. Il corpo non fu mai trovato, solo un piccolo frammento osseo fu restituito nel 2005 dalla Croce Rossa alla famiglia, confermato dal RIS dei carabinieri dopo le analisi sul DNA.
Enzo Baldoni è stato un giornalista che non scriveva per sentito dire, voleva prima vedere, poi capire e quindi raccontare.
È importante ricordarlo oggi in un momento così complesso con le tante guerre sparse nel mondo e in particolare in Europa e nel Medio Oriente. Solo nella striscia di Gaza sono stati uccisi ben 169 giornalisti e giornaliste palestinesi, dove, per trovare la verità, è fondamentale la presenza, guardare con i propri occhi, per questo gli israeliani impediscono reporter stranieri di entrare nella striscia per documentare, quello che faceva Enzo: testimoniava la realtà indipendentemente dalle ideologie.
Lo dimostrano i suoi reportage realizzati in Colombia, in Uganda, in Ciapas, a Timor est, fino all’Iraq. Il lavoro di un “vero ficcanaso”, come lui stesso si definiva.
Ricordare Enzo serve per fare memoria, troppo facile mettere da parte o dimenticare. All’epoca il giornalista freelance, nato a Città di Castello l’8 ottobre 1948, collaborava con il settimanale “Diario” diretto da Enrico Deaglio. Dopo il suo sequestro fu denigrato da due colleghi di “Libero”, il direttore Vittorio Feltri e il suo vice Renato Farina (qualche anno dopo fu scoperto essere un collaboratore dei servizi segreti con il nome “Betulla”), definendolo “un pirlaccione”, con i seguenti titoli in prima pagina: “Vacanze intelligenti”, “Il pacifista con il Kalashnikov”, solo perché Enzo era di sinistra, contro la guerra e non un inviato di un’illustre testata.
Di Enzo Baldoni non sappiamo se è stato giustiziato appena sequestrato oppure una settimana dopo come ci raccontarono le cronache, poco importa, sappiamo solo che quello che avvenne dal giorno della sua scomparsa rappresenta ancora oggi una vergogna per il nostro Paese: l’incapacità del Governo nel proporre una strategia di mediazione con i sequestratori, sbagliarono clamorosamente i canali della trattativa.
L’allora commissario straordinario Maurizio Scelli, che aveva trasformato la Croce Rossa Italiana in ente governativo abbandonando quei principi che erano alla base di un’organizzazione umanitaria: neutralità e indipendenza dalle parti in causa in un conflitto, raccontò che Baldoni andava in giro alla ricerca di interviste impossibili, come risultò da un’Ansa del 23 agosto 2004, tre giorni dopo il suo rapimento, che riportò un intervento del commissario al Meeting di Rimini, quando il corpo dell’autista-interprete Ghareeb era stato ritrovato: “Il fatto che non ci fosse il corpo di Baldoni, induce a pensare che sia da un’altra parte. Auguriamoci che sia in giro a fare gli scoop che tanto ama”. Scelli poi divenne deputato eletto nel partito di Berlusconi. Era tutto scritto.
La morte di Baldoni è stata la conseguenza delle responsabilità politiche di chi ci portò in guerra spacciando l’intervento come una missione di pace, ricorda quelle di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin avvenute esattamente trent’anni fa il 20 marzo 1994.
La fine dei tre giornalisti, al di là delle “disattenzioni”, dell’insabbiamento, del depistaggio, ripropone, in modo drammatico, il tema, purtroppo sempre attuale, del rapporto tra guerra e libertà di informazione.
Mi piace concludere il ricordo di Enzo con le parole della moglie Giusy Monsignore: “Enzo è morto ma continua a vivere, non solo in me, ma in tutti quelli che in questi anni ha aiutato, ha consigliato, ha conosciuto, In tutti ha lasciato dei semi che cresceranno”.
Fonte: Articolo 21
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