Venezuela: dove niente è come sembra
È giunta l’ora di tornare, ma non si pensi che calerà il sipario su questa storia, come su tutte le altre che seguiamo ogni giorno e i cui echi scompaiono quasi subito sui media mainstream.
Forse il nostro problema è che le storie degli altri ci si appiccicano addosso, e diventano parte delle nostre vite, o forse siamo semplicemente incapaci di lasciarle andare.
Niente è come sembra
Come al solito in Venezuela, le cose non sono mai come sembrano, non vanno come dovrebbero e per molti sembra essere un enorme racconto senza fine. Nei paesi normali, ci sono elezioni, vince chi vince, chi sosteneva quello che ha vinto, è contento, chi no, se ne fa una ragione fino alla prossima elezione.
Altri paesi come il Venezuela, hanno spesso al potere persone che usano gli strumenti democratici per affermare il loro potere e quando questo non avviene, si mostrano per quello che sono.
Anche se è difficile vederlo se non si è qui, se non si parla con la gente, se non si entra a gamba tesa oltre al confine e nelle loro storie.
La maledizione del Venezuela
Una delle maledizioni di questo paese è il petrolio, i paesi con delle risorse non sono mai indipendenti, vengono scossi come un cubo di Rubik sperando che si raggiunga il quadro dei colori giusti ma non avviene mai. Ci sono troppi interessi, ci sono troppe influenze esterne e interne, per preoccuparsi del benessere della gente normale, quella che ogni mattina si alza, si preoccupa della spesa e delle medicine.
In Medio Oriente e in Centr’Asia ho imparato quanto l’ideologia religiosa possa essere deleteria, qui ho imparato quanto quella politica possa arrivare a estremi che non hanno più niente a che fare con quello in cui si crede. E la fede cieca, qualunque cosa sia, è male.
In Occidente ho imparato, invece, che lo sganciamento da qualsiasi ideale in nome del benessere economico, è la fine della civiltà. E non importa da che parte si stia, se non è dalla parte della pace e dei diritti umani, non sarà mai quella giusta. Perché sono le persone quello che contano, e non il benessere dell’uno rispetto a quello degli altri.
E non c’è neanche più destra e sinistra a questo livello, perché la terra è tonda e si può andare così a sinistra da arrivare a destra.
Esistono dei criteri per definire un regime, una dittatura, e questo paese risponde a tutti. Nessuna libertà di stampa, prigione per i politici contrari, violenza strisciante da parte di milizie. Corruzione, isolamento. Totale controllo delle istituzioni. Attacchi personali a chi la pensa diversamente. Macchina del fango verso gli oppositori.
Dovrebbero consegnarsi agli americani?
Molti ribattono e le sanzioni americane e chiedono, allora il paese dovrebbe finire nelle mani degli Stati Uniti? Certo che non lo si augura a nessuno, ma al momento il Venezuela non è indipendente, è già nelle mani di qualcuno, dell’altro blocco, quello russo, cinese, iraniano.
Ma il punto è ancora un altro, la gente avrà pure diritto di scegliere da quali mani farsi stritolare. Un pollo da tastiera ha cercato di colpirmi dicendomi che odio il Venezuela, che sono contro il governo e hanno fatto bene a non farmi entrare. Ma quello che mi ha colpito è che attaccare qualcuno per dimostrare la propria tesi, è ignoranza.
In realtà non odio nessun paese. E di sicuro non lotto per entrare in un paese se penso che non ci sia qualcosa da raccontare. Non amo il potere, questo sì, da qualsiasi parte sia quando attacca i giornalisti, ma anche quando non li attacca, per definizione e deformazione professionale, non sto dalla parte di nessuno potere anche se mi piace, ma devo dire che non me ne viene in mente uno che non abbia difetti.
Invece, mi piace la gente. Mi piacciono le contraddizioni delle persone, le complicanze, le speranze. Che sia qui, in Afghanistan, ovunque abbiamo raccontato storie. Sento la loro sofferenza, mi aggrappo alle loro speranze. Non li giudichiamo, li raccontiamo. Senza certezze di chi sia dalla parte giusta. Abbiamo raccontato i politici da una parte e dall’altra, il mio compito non è dire chi ha ragione ma dare la possibilità di essere ascoltati.
I fatti non si possono cambiare
E poi ci sono i fatti e quelli sono abbastanza incontrovertibili. E questa storia venezuelana è piena di fatti, che si è cercato di manipolare, con la rabbia, la propaganda, la violenza, con i divieti, con io ho ragione e tu per forza torto. Il mondo è molto più vario di questo.
E chi siamo noi ancora una volta, nella migliore delle tradizioni occidentali, per decidere da che parte deve stare un popolo? C’è una prepotenza intrinseca, forse storica, nel nostro credere di sapere cosa sia meglio per gli altri.
Chi siamo noi per farlo? Un’Europa a pezzi, capace solo di fare affari con gli armamenti, incapace di spegnere le guerre, di imporre sanzioni quando davvero servono, di guardare bambini morire, perché un manipolo di suprematisti bianchi ci tiene in pugno con un passato che non abbiamo mai veramente risolto?
O siamo quel Regno Unito che scende in piazza urlando contro gli immigrati che vengono dai paesi dove abbiamo foraggiato le guerre, o siamo quelli che scendono in piazza contro i razzisti?
In realtà, molti solo quelli che prendono posizione sui social, senza sapere veramente cosa stia succedendo, senza approfondire, senza aprire un giornale che forse oggi è meglio non aprire.
Sono quelli che si scagliano contro le donne, quando qualcuno gli dice che sono maschi, ma poi non lo sono, ma forse dovevo ascoltare prima di parlare, sono quelli che spargono odio perfino nello sport, che parlano del pugno di una pugile piuttosto di tutto quello di avvincente di ogni olimpiade.
Lo stesso vale per il Venezuela, si vede la superficie e si spara contro, impregnati di quello che si vorrebbe, non di quello che invece sta accadendo. È buffo chi annuisce al presidente Venezuelano quando parla di colpo di stato, di violenti di estrema destra, di istigazione all’odio perfino terrorismo nelle strade.
Delle frange malate, ci saranno pure nei movimenti di opposizione, come ci sono brave persone dall’altra parte convinte in quello che credono. Ma nelle strade c’erano famiglie, c’erano migranti, c’erano bambini, mamme che lavorano, uomini malmenati.
Il sogno infranto
C’era un’energia in queste elezioni che non ho mai sentito, c’era il sogno che si potesse cambiare le cose nel modo più civile possibile, con le elezioni, appunto. Non è stato così. C’era la parola libertà e speranza. C’era la parola unità.
E magari mi sbaglio, ma i discorsi di destra li ho sentiti più da quelli che si dicono di sinistra che da quella manica di squadristi che andavano in giro con i passeggini e il viso truccato con la bandiera venezuelana.
In questa storia, tutte le strategie sono state messe in campo, perché il processo non fosse democratico. Fuori gli osservatori internazionali, fuori i giornalisti, impedito il voto ad un terzo dei venezuelani, persone fuggite all’estero e che anche una volta rientrati non sono riusciti a votare.
La violenza c’è stata, 24 morti, decine di feriti, ma erano manifestanti, giovani ragazzi e ragazze inseguiti, picchiati e uccisi dalle milizie. 2000 arresti, persone finite in prigione per le quali nessuno parla come si fa, per fortuna, per i detenuti palestinesi. Un presidente che parla di campi di rieducazione?
Provate a mettere la stessa frase in bocca al presidente egiziano o turco? Già vedo gli striscioni. Ma qui è diverso perché le ragione della teologia (perché di fede si tratta) chavista erano indubbiamente giuste. Ma una cosa è la teoria, è un’altra la pratica. Una cosa è sollevare le mani al cielo e un’altra ficcarle nella melma.
Ma torniamo alle elezioni e ai fatti, l’hackeraggio, motivo per il quale la commissione elettorale, non ha presentato i risultati ufficiali, non c’è stato secondo una delle organizzazioni più autorevoli al mondo, il Carter Center.
Ma l’opposizione i dati li aveva, perché si è fatta furba, e ha conservato tutte le acte che sono uscite dalle macchine elettroniche durante il voto, e li ha pubblicati online.
Come se ne esce?
E ora come uscire da questo imbarazzo? Sono ormai tra scorsi 10 giorni dalle elezioni e siamo in una fase di stallo. Alcuni hanno sostenuto il candidato rivale di Maduro, i soliti noti continuano a spada tratta a sostenere il loro anche perché scuotere l’establishment venezuelano che si è incollato alle poltrone sarebbe un lavoro immane e alla fine siamo al punto di partenza, se non un po’ peggio.
Eppure, come al solito nessuno si è chiesto che cosa i venezuelani vogliono, perché viaggiando, piangendo, sognando, loro lo hanno detto, è scritto su ogni cedolina che è stata sputata fuori dalle macchine del voto.
Ma chi li ascolta i venezuelani che vogliono tornare a casa? Quelli che mantengono le famiglie da fuori sentendosi esuli di un paese che guardano morire? Quelle donne sfruttate e usate, perché oggi uno stipendio in Venezuela è di tre, quattro euro al mese, se non fai parte del regno di Maduro e dei suoi.
Che cosa accadrà?
Riconoscere Gonzales quando Maduro è ancora al potere, serve a poco, un po’ riconoscere la Palestina, quando è ancora sotto occupazione. Negoziare per la sua uscita, ci stanno sicuramente provando, Brasile, Colombia e qualcun altro.
Oppure tergiversare, dire che le elezioni non sono andate bene, riprogrammarle a dicembre, prendersi un po’ di tempo, che serve al regime per pensare meglio a come tenerselo stretto questo potere.
Oppure imbracciare le armi, ma senza vittoria, con l’esercito, i guerriglieri, i narcotrafficanti, cubani persino estremisti arabi e mercenari russi, che si trovano già nel paese, non c’è speranza di farcela per la gente che ha voglia di costruire, non di distruggere. Ci sarebbero molti più ragazzi in carcere torturati, famiglie distrutte, più di quanto lo siano già.
In Venezuela niente è come sembra dicevo all’inizio, il colpo di stato hanno tentato di farlo, ma non chi dice Maduro, ha tentato di farselo per rimanere in quel potere che è un nido d’api per chi vuole destabilizzarlo. 25 anni di chavismo si sono radicati nel sistema quasi a fonderlo.
La soluzione? È lenta, se vuole essere costruttiva. È politica, se vuole essere pacifica. Di sicuro non sarà facile. Ma i sogni della gente hanno fatto rivoluzioni, continuano a fare girare il mondo. E se una mamma arriva a prostituirsi pur di far mangiare un figlio, niente può essere più coraggioso di questo, si può anche cambiare un paese.
In questo momento Radio Bullets sta tornando dalla Colombia dopo aver seguito le elezioni sul confine con il Venezuela, perché come a molte altre testate giornalistiche non ci è stato concesso il visto.
Abbiamo deciso di raccontare queste elezioni dal posto più vicino e in mezzo a migliaia di venezuelani che vivono qui.
Se volete sostenere la presenza di Radio Bullets nell’area, andate su www.radiobullets.com/sostienici
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* Radio Bullets, 09/08/2024
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