Te li do io i Navigli. È il “mud” del capo: al ristorante c’è il menu spaccatimpani
Il “mud” del capo. Scritto “mood”. Stampatevela in testa questa espressione, perché sta diventando decisiva per interpretare il mondo.
Come sempre il sociologo parte dai dettagli. E il dettaglio è una afosa serata milanese in cui si va a cenare lungo i navigli, zona via Tortona. Locali tradizionalmente di tutti i tipi e dunque ci sta pure di trovarne uno lungo, a una navata, addobbato a mo’ di teatro.
Un po’ strambo, né molto empatico. Ma si immagina che come sempre dipenderà dalla “chimica” del luogo. La quale viene annunciata dopo cinque minuti dal volume della musica. Una roba esagerata. Ci deve essere in effetti un’epidemia di sordità tra i titolari di bar, ristoranti, ritrovi serali.
Quel che suoni in casa in solitudine durante i tuoi intervalli, per goderti sfrenatamente le tue musiche preferite, sta infatti con assoluta certezza molto al di sotto del volume che ti viene rifilato nei luoghi dove ti dai appuntamento per stare con altri e con altri conversare.
Il nostro aspirante dopoteatro non sfugge all’epidemia anche se allinea sulle pareti immagini rassicuranti ed evoca note semisecolari. Attori, cantanti di decenni e decenni fa. Epoche in cui andavano di moda le melodie di Frank Sinatra o di Perry Como o dei Platters. Ma a dispetto delle immagini e delle note il suono è invasivo, alto, sempre più alto.
L’assenza di cultura (che si vede sempre, non c’è niente da fare…) anche a questo arriva: a trasformare i cantanti confidenziali in urlatori cacofonici.
Attenzione: nessuno ha chiesto da un tavolo “per favore potete alzare la musica?”. D’altronde questo non l’ho mai sentito chiedere da nessuna parte in vita mia, al massimo ho sentito la richiesta di alzare l’aria condizionata.
Finché arriva qualcuno e fa il sondaggio: “Tutto bene?”, “sì grazie, però se poteste abbassare la musica, sa non riusciamo a sentirci…”. “Certamente”. Certamente un piffero. La musica non si abbassa. Alla faccia delle stesse canzoni, che sono incontrovertibilmente melodiche. L’importante sono i decibel. Alti, sempre più alti.
Come quei maledetti “tum tum” a furia di basso che vi vengono rovesciati addosso ossessivamente anche quando cercate di godervi per dieci minuti un cielo stellato sbucato da settimane di pioggia.
Perciò -digressione- una sera ho fatto un referendum fra tavolini: “scusate ma l’avete chiesto voi?”. Non lo aveva chiesto nessuno. Il fatto è che ormai è come il decoro fisico. Mi faccio la barba e mi lavo i denti anche se nessuno me lo chiede. Lo faccio per mio decoro.
Dev’essere così per i locali. Che dignità potrebbero avere se non spaccassero i timpani agli avventori, se non li costringessero a urlare per sentirsi?
Naturalmente nel nostro dopoteatro cerchiamo di far valere con delicatezza il vecchio, sacrosanto principio che il cliente ha sempre ragione. Ma usciamo sconfitti.
Arriva il momento della cassa. “Tutto bene?” “Sì, solo che abbiamo faticato a parlare. Abbiamo chiesto inutilmente di abbassare il volume”. La cassiera affetta umana comprensione ma ricorda che è la regola: vi capisco, ma è il “mud del capo”.
Il mud del capooo? Ma come si parla qui? (santo Moretti, “chi parla male pensa male”…). Ma perché se il “capo” ha questo mud non scrive all’ingresso “vietato parlare”? Poi uno si regola, se entrare o uscire. Semplice, no?
Il guaio è che il proprio mud ormai viene “imposto” agli altri. E “mood” vuol dire “umore”, “disposizione d’animo”. Ovvero: il mio mood diventa comando per gli altri, anche se dissentono e sono loro che mi pagano.
Breve riflessione: ma quanto sta diventando regola dominante quella di imporre i propri umori di stagione o di giornata nel mondo che ignora le regole, non si dice della buona creanza, ma dei codici o delle Costituzioni, infischiandosene di chi non viene mai consultato e per di più paga il conto? Quanti sono, nella nostra vita, i “mud del capo”?
Meditate gente, meditate…
Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 05/08/2024
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