Stato di diritto e media. Meloni come Orban?
Ora che è stata rieletta senza i voti di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen renderà pubblico il Rapporto sullo stato di diritto tenuto in qualche cassetto per fare una cortesia alla Presidente del consiglio italiana?
In quel testo, si sussurra, vi sarebbero giudizi non commendevoli sullo stato dell’universo mediatico nell’età della destra al governo. Del resto, basti vivere in questo mondo per accorgersi di una vera e propria invasione del nostro immaginario. E questo non riguarda solo il Tg1, diventato ormai il megafono ufficiale del regime, bensì pure le varie filiere dell’infosfera: dalle pressioni su consistenti parti della stampa, all’occupazione della Rai, all’atteggiamento verso il diritto di cronaca (il diluvio di querele temerarie), all’assenza di una visione riformatrice. Ora sarebbe augurabile che almeno le componenti democratiche e progressiste dell’assemblea di Strasburgo ponessero con urgenza il problema della trasparenza, invitando la responsabile di Bruxelles a rendere pubblico il documento, con l’apertura di un adeguato dibattito.
E anche nel parlamento italiano avrebbe senso chiedere conto di una vicenda tanto misteriosa quanto assurda. Del resto, l’Italia in Europa è una sorvegliata speciale, ormai vicina all’Ungheria di Orbán nel giudizio prevalente.
Diversi giorni fa creò allarme la pubblicazione del Centre for media pluralism and media freedom «Monitoraggio del pluralismo dell’informazione nell’era digitale», pubblicato dall’European University Institute e dal Robert Schuman Centre for Advanced Studies.
Nel rapporto in questione si indagano varie aree tematiche con indicatori di pericolo presentati in una scala da 0 a 100%. Da 0 a 33% rischio basso; da 34 a 66% medio; da 67 a 100% alto.
Naturalmente, nelle più di 50 pagine del Rapporto si prendono in esame le piaghe che affliggono il sistema: dalla scarsa autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo alla mancanza di una disciplina non retriva sulla diffamazione. Un passo inquietante riguarda il dato offerto da Ossigeno informazione sui giornalisti minacciati nel 2023: ben 500. Di cronaca coraggiosa si può morire, come dimostra la tragedia di Gaza, andrebbe aggiunto.
Ma il rischio tocca una percentuale da bollino rosso (61%) nel capitolo sul pluralismo di mercato. Qui si incrociano le assenze e le fragilità della legislazione con l’insufficiente trasparenza delle proprietà e la malattia antica della concentrazione. Il discorso tocca da vicino il nervo scoperto dell’irrisolto conflitto di interessi, che evoca il legame tra Mediaset e Forza Italia, ma non solo. Si tratta di una ferita, che contribuisce ad appannare l’immagine italiana e a condizionare l’edificio democratico.
A tale fotografia negativa si unisce il pericoloso 72% sul quale si attesta l’indicatore della sostenibilità dei media, che la caduta vertiginosa della carta stampata fa traballare. E non restituiscono equilibrio alla situazione le incerte linee sull’innovazione. Al proposito, il testo è piuttosto aspro. Le modalità di finanziamento del comparto non vanno bene, si sottolinea. Talune testate, si scrive, rispettano solo formalmente i requisiti richiesti per accedere alle risorse dell’apposito Fondo, suscitando non pochi dubbi. Si guarda con preoccupazione all’applicazione delle norme sulle campagne elettorali, dove un emendamento della destra al Regolamento varato dalla commissione parlamentare di vigilanza ha permesso una presenza ultronea degli esponenti del governo nelle trasmissioni televisive. A rischio è proprio l’indipendenza del servizio pubblico, che abbisogna di una vera e rigorosa riforma.
Il punteggio peggiore (72%), tristemente, è raggiunto – però – dalla scarsissima eguaglianza di genere, restituendoci così un’impressione definitivamente negativa. Il Rapporto, curato per l’Italia da un gruppo di stimati docenti (Giulio Vigevani, Gianpietro Mazzoleni, Nicola Canzian e Marco Cecili) si conclude con numerose raccomandazioni, precise e condivisibili. Che le parole si traducano ora in iniziative concrete, rimettendo tra le priorità dell’agenda argomenti a lungo elusi e rimossi.
Fonte: il manifesto
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