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Borsellino, la voglia di mettere una pietra tombale sui segreti di Stato

Rino Giacalone il . Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

Le stragi del 1992 sono “Cosa nostra”, tutto il resto appartiene a quella parte delle istituzioni politiche che dopo quella sentenza di Cassazione, che confermò in quell’anno le condanne del maxi processo di Palermo, tentarono, attraverso una parte dei servizi segreti, di cavalcare la reazione di Cosa nostra per mantenere, o meglio acquisire, centralità dinanzi all’infrangersi della prima Repubblica sotto i colpi di “tangentopoli”.

È questa la lettura che viene fuori dalla sentenza con la quale la Corte di Assise di Caltanissetta condannò all’ergastolo per le stragi di Capaci e via D’Amelio, il capo mafia trapanese Matteo Messina Denaro. Il famigerato boss catturato dopo 30 anni di latitanza il 16 gennaio 2023 e morto nove mesi dopo per il tumore che lo aveva indotto ad abbandonare la strategia di invisibilità, fino a gennaio 2023 pienamente riuscita.

L’istruttoria, attenta e certosina, porta la firma dell’allora procuratore aggiunto della Dda di Caltanissetta, Gabriele Paci. Oggi è procuratore a Trapani.

Il quadro che oggi è presente in questo territorio è quello di una organizzazione criminale che ha messo all’incasso gli inciuci e gli intrallazzi del dopo stragi, che mantiene la sua invisibilità, una classe politica che in buona parte vive con la corruzione (non possiamo più parlare di abusi viste le scellerate scelte della maggioranza di Governo), in alcune parti capace di parlare con i mafiosi quando si tratta di cercare voti.

Cosa nostra resta invisibile, ha certamente da tempo scelto il successore di Messina Denaro per la guida del mandamento di Trapani che resta importante nel contesto regionale, grazie a quei soggetti che sono indubbiamente legati all’appartenenza massonica, e appartenenti alla massoneria trapanese non sono dei quisque de populo.

Sono trascorsi 32 anni dalle stragi mafiose nelle quali morirono tre magistrati, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e otto poliziotti, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

Ci sia consentita una chiosa a questa premessa. Sono passati 36 anni da quando dopo la nomina di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala, scoppiò, sulla scia di un articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, la cosiddetta polemica sui “professionisti dell’antimafia”.
Siamo nel 2024 ma è cose se fossimo ancora in quel 1986. Trentadue anni dopo le stragi è accaduto il 23 maggio, accadrà oggi 19 luglio, celebriamo Falcone e Borsellino, ma cala il silenzio sulla realtà. Un ovattato silenzio, invece di una indignata reazione.
Uno scenario che ci riporta indietro negli anni, in quegli in cui Falcone e Borsellino, in vita, erano circondati da personaggi, che Borsellino un paio di settimane prima di essere ucciso indicò come “Giuda” al pubblico della Biblioteca comunale di Palermo.
Oggi c’è una sentenza che dice che chi scrive non scrisse il falso quando ai lettori del Fatto Quotidiano indicò nel giudice Vincenzo Geraci il personaggio del quale Borsellino ebbe a lamentarsi con grande veemenza pubblicamente.
C’è la ferma necessità di rivedere a ritroso tutta una serie di avvenimenti sull’avversione storica di Cosa nostra contro Paolo Borsellino.
Avversione che dentro lo Stato qualcuno sponsorizzava. Ci sono anche da rileggere le intercettazioni dei colloqui svoltisi nel carcere di Opera a Milano tra i codetenuti Totò Riina e Alberto Lorusso. Riina parlava di Borsellino e di come più volte non era riuscito nel suo proposito di ucciderlo.
L’ex capo mafia e spietato killer di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, è il collaboratore di giustizia che meglio di altri ha trasferito ai magistrati il piano di morte che sin dagli anni ’80 era stato deciso per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La figura che entra in campo nella fase stragista di Cosa nostra attuata nel 1992 ma pensata sin dagli anni ’80, è quella di Matteo Messina Denaro, capo della cupola trapanese per eredità ricevuta dal padre, don Ciccio Messina Denaro, mentre questi era ancora in vita, ma malato.
Lui, don Ciccio Messina Denaro, come il figlio girava libero e non visto per gli ospedali d’Italia (si sono scoperti due ricoveri negli ospedali di Padova e al policlinico di Palermo mentre era già ricercato dal 1990) e non potendo andare ai summit delegava il figlio Matteo a rappresentarlo. Matteo che a Castelvetrano girava mostrandosi quasi come se fosse rampollo di una famiglia di sangue blu, d’altra parte qui gli uomini d’onore erano visti come dei nobili.
Una ricerca della verità che deve essere capace di individuare e smascherare certi “inquinatori di pozzi”, professionisti nell’ordire “tragedie”, certi bugiardi di Stato, che hanno alimentato anche un consistente potere di ricatto.
E qui c’è da considerare un altro pezzo di questo puzzle.
Una intervista fatta per conto della francese Canal Plus a Paolo Borsellino il 20 maggio del 1992 da due giornalisti francesi, Jean Pierre Moscardo, morto nel 2010 e Jean Claude Zagdoun (in arte Fabrizio Calvi), morto un paio di anni fa.
È la famosa intervista rimasta nascosta per alcuni anni: nel 1994 su “L’Espresso” vennero fuori alcune parti, relative al mafioso Vittorio Mangano che faceva il fattore nella tenuta di Arcore di Silvio Berlusconi, nel 2000 Rai News24 ne propose alcuni stralci, infine nel 2009 “Il Fatto” ne fece un allegato ad una sua edizione, il video più completo. Le manovre che ci furono dietro questa intervista da ultimo le ha bene raccontate Marco Lillo del “Fatto Quotidiano”. I due giornalisti francesi andarono a intervistare Borsellino all’epoca in cui Berlusconi stava tentando la scalata ad un colosso televisivo francese. Volevano usare quell’intervista per far saltare i piani imprenditoriali del cavaliere. L’intervista non andò mai in onda, e intanto Berlusconi lasciava perdere gli investimenti nella tv via cavo francese.
C’entra quell’intervista con il fatto di accelerare la strage di via d’Amelio? Secondo le indagini la circostanza è esclusa, ma semmai l’andazzo di questa storia dimostra come la nuova politica che intanto si affacciava sull’Italia aveva “uomini e mezzi” per mettere a tacere determinate vicende scabrose.
I due giornalisti sono scomparsi, non possono nemmeno loro, in questo racconto di stragi e morti o ammazzati o di morte naturale, dire più nulla, ma viene quasi da pensare che a priori quell’intervista non doveva andare in onda, ma semmai serviva ad altro, a compiere ricatti. Ma siamo in uno scenario successivo alle stragi, non certo concorrente agli eccidi di Capaci e via D’Amelio.
Di cose da approfondire ce ne sono quindi tante. Ma maggiormente sul dopo stragi. Le bombe di Capaci e via D’Amelio furono solo roba di Cosa nostra. È tutto il resto che non appartiene solo alla mafia.
E per chiudere occorre ricorrere alla storia dell’antica Roma. Per trovare lì le tracce di oggi, di uno Stato, una Democrazia preda degli arcana imperii, i segreti del potere, come descritti da Tacito negli Annales. Una Democrazia nella sua azione non dovrebbe concedere spazio al segreto, ma le indagini sulle stragi in Italia, da Portella della Ginestra in poi, ci dicono che non è così e anzi oggi quasi ci si vuol dire che esiste una necessità di gestire in questo modo gli affari di Stato, figli di quegli arcana imperii, in nome dell’accettazione del concetto di bene supremo. Ottenere certe verità? Si dice che per lo Stato avrebbero un costo, tale da sconvolgerne l’assetto, tante sono le compromissioni e commistioni, che alla fine ci ritroviamo a cantare, in allegria, sulle tombe dei nostri morti, il famoso ritornello di Cigliano, scurdammoce o ppassato, simmo ‘e Napoli paisà!
Chissà mai se sorgerà in questo nostro Paese una nuova Repubblica (ci siamo persi il conto a quale numero di Repubblica siamo arrivati) segnata da una certa conoscenza ottenuta valutando correttamente le informazioni, facendo come suol dirsi intelligence. Chissà!
Certo la Repubblica oggi nelle mani di post fascisti (così si definiscono) pare avere l’unico scopo di riformare la Costituzione per mettere pietra tombale sui segreti di Stato. Ma costoro non hanno ancora vinto. Non distraiamoci per evitare che in questo nostro Stato i segreti servano a nutrire poteri che con la Democrazia non hanno nulla a che spartire.

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