Nella lotta contro la corruzione l’Italia inserisce la retromarcia: abroga l’abuso d’ufficio
Intervista a Raffaele Cantone.
Nella sua ormai lunga esperienza professionale Lei ha avuto l’occasione di svolgere diverse funzioni: è stato sostituto Procuratore a Napoli, anche presso la DDA, poi all’ufficio del massimario, Presidente dell’ANAC ed attualmente riveste il ruolo di Procuratore della Repubblica a Perugia. Tale diversità di ruoli Le ha consentito di analizzare il fenomeno corruttivo sotto diverse angolature, sia come investigatore in relazione al caso concreto che come, potremmo dire, studioso ed osservatore del fenomeno.
Quali sono i punti deboli del sistema attuale di tutela contro la corruzione, cosa manca e cosa sarebbe auspicabile introdurre o modificare, tanto in un’ottica di garanzia per l’indagato che in un’ottica di tutela effettiva della collettività contro un fenomeno i cui effetti si riverberano sulla efficienza ed effettività dei servizi resi al cittadino e dunque sullo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese.
È necessario prima di affrontare specificamente la questione posta partire da una considerazione di fondo. Grazie soprattutto al lavoro svolto in sede internazionale e riversatosi in varie convenzioni, la più importante delle quali è quella dell’ONU del 2003 varata in Messico a Merida, la corruzione non è più vista solo come un atto, pur grave, di “tradimento” del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà assunto con l’Istituzione di appartenenza. Soprattutto quella corruzione che riguarda il sistema lato sensu delle commesse pubbliche (la cd. grand corruption) va, invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto di minare persino le stesse fondamenta della democrazia. Su questo punto sono concordi tutti i preamboli delle convenzioni internazionali e non è un caso che una felicissima definizione di essa attribuibile al Presidente Mattarella, la indica come “furto di democrazia”.
Questo cambio di paradigma è fondamentale perché giustifica la messa in campo di strumenti molto più raffinati del passato che si imperniano non solo sulla tradizionale attività repressiva/penale ma anche sulla più moderna prevenzione.
Grazie allo stimolo internazionale, l’Italia si è dotata, a partire dalle legge Severino del 2012, di un armamentario molto più efficiente di quello precedente, valutato positivamente sul piano sovranazionale, creando anche un’autorità indipendente ad hoc (l’ANAC) con il compito di sovrintendere al rispetto delle disposizioni in materia di prevenzione ma non mancando di rafforzare contestualmente gli strumenti repressivi, sia introducendo nuovi reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, traffico di influenze illecite etc), ma anche di strumenti ritenuti idonei a farla emergere (attenuanti in caso di caso di collaborazione, non punibilità in presenza di un’autodenuncia, possibilità di utilizzare le operazioni sotto copertura etc).
Sarebbe impossibile in questa sede individuare criticità e punti di forza di questo nuovo ed articolato impianto, ma io credo che esso sia ben strutturato ed ha già dato alcuni buoni risultati, consentendo all’Italia di recuperare tante posizioni, ad esempio nella classifica di Transparency international.
Quell’impianto necessiterebbe di una manutenzione che non lo metta, però, in discussione e soprattutto dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista culturale e politico. Invece, nell’ultimo periodo l’intero sistema anticorruzione è oggetto di critiche ed attacchi anche da esponenti delle Istituzioni pubbliche che ne stanno facendo perdere la sua forza. Non c’è legge che possa funzionare se chi dovrebbe sostenerla non ci crede ed anzi propone revisioni profonde e, a mio modo di vedere, peggiorative.
È stato approvato anche alla camera il disegno di legge C. 1718 che porta il nome dell’attuale Ministro della Giustizia, Nordio. La modifica normativa che connota tale disegno di legge è certamente l’abolizione tout court della controversa fattispecie dell’abuso d’ufficio, rispetto alla quale lei ha già preso espressamente posizione fornendo un contributo tecnico – giuridico in sede di audizione alla Camera dei deputati, avvenuta il 13 settembre 2023 che, come quello di altri Suoi colleghi, pare essere rimasto del tutto inascoltato.
Perché, in sintesi, gli effetti dell’abrogazione di tale norma possono determinare un serio arretramento nel sistema di tutela contro la corruzione?
Voglio premettere che è mia convinzione che l’abrogazione dell’abuso di ufficio abbia effetti deleteri sul sistema Paese che vanno ben oltre le questioni della corruzione.
Viene meno, infatti, un presidio, che al di là dell’applicazione concreta, di legalità dell’azione amministrativa. Il delitto di abuso tutela, infatti, direttamente il valore costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sanzionando comportamenti di strumentalizzazioni dell’azione amministrativa che dovessero intenzionalmente avvantaggiare o danneggiare qualcuno.
Ed è falso quanto viene ogni giorno affermato anche da personaggi di primo piano della politica, secondo cui l’abrogazione non attenuerebbe la tutela del valore costituzionale dell’imparzialità perché il sistema in generale ha già altri strumenti alternativi È invece indiscutibile, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che gli atti prevaricatori o i favoritismi anche eclatanti, compiuti senza una controprestazione di utilità, resteranno senza tutela penale. certo essi potranno, se emersi, essere sanzionati in via disciplinare, ma non c’è bisogno di una conoscenza profonda dell’amministrazione pubblica per sapere quanto sia inefficiente il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione.
L’abrogazione ridurrà senza dubbio, quindi, il controllo di legittimità sull’azione amministrativa ed indirettamente, quindi, rischierà di creare un humus favorevole ai fatti corruttivi. Ma l’effetto più negativo per le indagini sulla corruzione deriva dall’impossibilità di utilizzare l’abuso di ufficio come “reato spia”.
Chi si occupa di indagini di pubblica amministrazione sa bene che un’indagine per corruzione molto raramente parte da una notizia di reato specifica e che essa soprattutto consegue ad indagini sulla regolarità di atti amministrativi. Quando in futuro non si potrà avviare nessun accertamento su possibili strumentalizzazioni dell’azione amministrativa, sarà difficilissimo reperire in altro modo una notizia di reato per corruzione. Questa affermazione, che viene contestata dai fautori dell’abrogazione con argomenti squisitamente ideologici (del tipo che i reati spia sarebbero espressione di una cultura della “pesca a strascico”), trova, invece, supporto proprio dalle convenzioni internazionali che ritengono indispensabile, per un’efficacia azione anticorruzione, la previsione di una fattispecie penale di abuso.
È noto che la ragione posta a fondamento della necessità di abolire l’abuso d’ufficio sia, in sintesi, la presunta inutilità della norma – valutata in virtù delle poche sentenze di condanna e delle numerose assoluzioni scaturite dai procedimenti penali avviati per tale fattispecie – unitamente agli effetti persino dannosi che la stessa avrebbe comportato ingenerando la c.d. “paura della firma” e la conseguente paralisi dell’azione amministrativa.
Si tratta di una giusta chiave di lettura? Cosa indica, se così non è, il dato relativo alle assoluzioni e come avrebbe potuto essere diversamente letto e valorizzato?
Che ci sia una tendenza nell’amministrazione a rallentare l’azione amministrativa per la paura dei funzionari di subire conseguenze negative sul piano personale per il loro agire è un dato purtroppo indiscusso. Nel nostro linguaggio si è persino coniata un’espressione (“burocrazia difensiva”) mutuata da altri ambiti (quello sanitario dove si parla di “medicina difensiva) che è assolutamente sconosciuta in altri Paesi. Dare, però, la colpa di questa situazione all’abuso di ufficio è frutto di una visione superficiale che sarà purtroppo certamente smentita nel prossimo futuro.
I fatti dimostreranno che anche dopo l’abolizione dell’abuso la burocrazia difensiva non sparirà affatto e le amministrazioni non eccelleranno per la celerità delle decisioni. La paura della firma ha ragioni più complesse, frutto spesso di una cattiva organizzazione dell’amministrazione e di una non sempre adeguata preparazione dei funzionari, di cui essi non hanno nessuna colpa, perché non vengono loro nemmeno spiegate le tantissime e continue modifiche legislative in ambiti delicati, come ad esempio quelli degli appalti pubblici.
Quanto al dato delle assoluzioni, è certamente indiscutibile che ve ne sono state numerose soprattutto nei tre gradi di giudizio, spesso anche con il ribaltamento di decisioni di condanna di primo grado. Le ragioni di ciò sono varie e dipendono indiscutibilmente non solo dalla struttura della norma ma anche dall’interpretazione della giurisprudenza che ha ritenuto, fra i parametri normativi che giustificano la violazione di legge, di annoverare anche regole spesso elastiche che rendono non sempre chiaro stabilire a priori cosa è lecito e cosa non lo è.
Questa considerazione avrebbe, però, giustificato un intervento di modifica sulla fattispecie e non certo l’abrogazione. Del resto, il legislatore del 2020 con una riforma certo non scritta bene era intervenuto sul punto e non si è voluto nemmeno attendere gli esiti concreti di tale riforma; era una battaglia ideologica quella di mostrare “lo scalpo” dell’abuso di ufficio. Il legislatore, quindi, con la scelta che ha fatto ha ammesso la sua impotenza nello scrivere una norma migliore!
Credo, invece, sia un argomento davvero insignificante quello pure utilizzato durante la fase di discussione del ddl che molti procedimenti di abuso si concludono con un nulla di fatto e cioè con l’archiviazione. Se dovessimo applicare questo criterio per stabilire quali norma lasciare in vita, rischieremmo di dover abrogare mezzo codice, a partire dal delitto di furto, in cui oltre il 95 per cento dei procedimenti vengono definiti con archiviazione per essere ignoti gli autori del reato.
Ovviamente l’argomento parte dall’idea che nei confronti dei funzionari pubblico anche solo l’avvio di un procedimento potrebbe rappresentare un danno, non controbilanciato dall’archiviazione. Questa affermazione è almeno parzialmente vera, ma anche in questo caso si sarebbe potuto intervenire con disposizioni ad hoc per sterilizzare queste conseguenze negative (e la riforma di Cartabia le aveva già avviate stabilendo che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli), piuttosto che giungere al taglio netto.
Quanto, secondo la sua esperienza, il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa o tecnica) contribuisce a rendere maggiormente controllabile, e dunque criticabile ex post, la correttezza dell’agire del pubblico funzionario? Potrebbe essere utile diversificare la responsabilità in ragione del tipo di discrezionalità esercitata o della qualifica rivestiva o del tipo di condotte realizzate, prevaricatrici o favoritrici o, ancora, in relazione al settore specifico di riferimento (es: settore sanitario o degli appalti?
Partiamo da una considerazione. La discrezionalità nella pubblica amministrazione rappresenta un dato fisiologico, direi persino ontologico. Serve perché l’amministrazione deve essere in grado di adattare le norme alle situazioni concrete che non sono prevedibili in astratto. L’idea di un’amministrazione che si limita ad eseguire le norme di legge è una semplificazione che non tiene conto della complessità delle vicende soprattutto in una società come quella attuale caratterizzata da tante stratificazioni e specificità.
Ciò detto è evidente che la discrezionalità è maggiormente a rischio di strumentalizzazioni illecite rispetto all’attività vincolata ma è un rischio che non si può in astratto sterilizzare. Esistono poi forme diverse di discrezionalità che concedono maggiori o minori margini di scelta da parte del funzionario.
Onestamente sarei scettico nel pensare che possa graduarsi la responsabilità penale o di altro tipo in relazione alle diverse forme di discrezionalità. Credo, invece, una strada percorribile potrebbe essere quella di lavorare su regole non giuridiche (tipo linee guida) che contengono regole sostanziali e procedimentali idonee a guidare nei casi concreti la discrezionalità ed il cui rispetto potrebbe valere come una presunzione di legittimità per l’azione del funzionario. Un sistema, quello cui penso, non diverso da quello delle linee guida nei vari settori della medicina, riconosciute giuridicamente dalla legge Gelli/Bianco. Un tale meccanismo potrebbe forse garantire maggiormente il cittadino rispetto agli arbitri, ma anche il funzionario rispetto ai rischi che potrebbero derivare dal suo agire.
Abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il DDL Nordio prevede anche la modifica dell’art. 346 bis c.p., con un ritorno all’originaria versione della norma, per come introdotta nel 2012 dalla Legge Severino ma, allo stesso tempo, un restringimento dello spettro applicativo della fattispecie con la previsione della natura “economica” dell’utilità data o promessa e una tipizzazione assai stringente del concetto di “mediazione onerosa”.
Quali sarebbero, a suo modo di vedere, gli effetti collaterali di questa modifica normativa, specialmente alla luce della coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio?
Malgrado il traffico di influenze sia stato introdotto da poco più di 10 anni (dalla legge Severino del 2012) siamo alla terza riscrittura! E già questa è una clamorosa patologia del sistema. Un tira e molla che non fa onore alla nostra legislazione.
Ciò detto, voglio premettere che io non ero stato fra entusiasti della modifica della fattispecie arrecata dalla legge cd. “spazzacorrotti” 2019 e soprattutto non mi aveva convinto l’assorbimento nella norma del millantato credito. Questo reato, infatti, si era ritagliato nel corso degli anni un suo spazio nel sistema penale, perché puniva un comportamento fraudolento nei confronti di un soggetto privato che danneggiava contestualmente anche l’immagine di imparzialità dell’amministrazione pubblica e dei suoi funzionari.
La scelta della “spazzacorrotti”, che aveva avuto come effetto di rendere punibile anche chi era stato vittima di una vera e propria frode, non mi aveva convinto anche si trattava di un’opzione patrocinata dalle convenzioni internazionali.
Il ddl Nordio sul punto torna indietro, ma senza ripristinare il millantato credito; fa, invece, confluire la millanteria (o come si preferisce dire la “vendita di fumo”) nella truffa, che però è sanzionato in modo molto più lieve del precedente delitto oltre ad essere procedibile a querela.
Ma la parte della riforma che più mi trova critico è quella in cui è stata definita la “mediazione illecita”; si tratta di un concetto generico, soprattutto perché nessuna disposizione chiarisce quando la mediazione è lecita, che aveva sempre attirato gli strali della dottrina, per il suo difetto di tassatività e quindi in astratto la scelta del legislatore non può che essere condivisibile.
Senonché, però, nella sua determinazione il ddl Nordio ha richiesto, fra l’altro, quale requisito imprescindibile che l’attività oggetto di traffico debba costituire per il pubblico ufficiale trafficato un illecito penale. Con la contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, le cd “mediazioni cd onerose” (quelle cioè in cui il trafficante si fa dare denaro o utilità economica per un suo “intervento”), finalizzate ad ottenere da parte del pubblico ufficiale una strumentalizzazione delle sue funzioni, diventeranno lecite.
Ciò significa che da domani chi dovesse chiedere del denaro per richiedere una “raccomandazione” ad un componente di commissione di concorso per far promuovere un candidato non costituirebbe più reato! E tanti altri analoghi esempi potrebbero essere fatti. È un passo indietro indiscutibile per il contrasto al malaffare nella pubblica amministrazione.
Con le modifiche del decreto Nordio si depotenzia quindi in modo significativo la capacità applicativa della norma, con il rischio, altresì, che quelle poche condanne ottenute potranno persino decadere.
Fonte: Giustizia Insieme
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