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Storia d’Italia, storia di Gian Carlo Caselli

Rossella Guadagnini il . Corruzione, Costituzione, Criminalità, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria

Attraverso il racconto del giudice Gian Carlo Caselli in “Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita)”, edito da Laterza, ripercorriamo vicende giudiziarie cruciali dal 1974 ad oggi, che hanno fatto la storia dell’Italia intera. La biografia di un uomo di legge e gli eventi a cui ha assistito, i fatti e i commenti, le delusioni e le vittorie. Tutto, o quasi, quello che avremmo avuto bisogno di sapere 50 anni prima, se solo fosse stato possibile.

“Quando ci sei, ci sei” è il semplice ma efficacissimo incipit del secondo capitolo di ‘Viaggio al termine della notte’ di Louis-Ferdinand Céline, scrittore cui una problematica biografia non ha impedito di realizzare uno dei maggiori capolavori del XX secolo. Quando ci sei, ci sei. Che tu lo voglia o no che tu scelga di non scappare perché l’hai deciso o semplicemente perché non c’è alternativa”. Lo dice Gian Carlo Caselli, ex magistrato, tra i più celebri d’Italia, riprendendo un brano della sua ultima fatica libraria Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita), pubblicata da Editori Laterza, e scritta a quattro mani con il figlio Stefano Caselli, giornalista.

Un saggio che non solo ha qualcosa da raccontare, ovvero una buona parte della storia giudiziaria italiana, ma che riesce a chiarire come si è arrivati all’oggi, al punto in cui siamo. Dentro, infatti, c’è la biografia di un uomo di legge e ci sono gli eventi che ha attraversato, i fatti e i commenti, le osservazioni e i malumori, le delusioni e le vittorie. Tutto – o quasi – quello che avremmo dovuto sapere 50 anni prima, se solo fosse stato possibile. Ma andiamo con ordine.

Che cos’hanno in comune una rivolta di pescatori corsi in un mare colorato di rosso, un volantino piegato in quattro trovato nella tasca di una giacca, un circuito elettrico nascosto da un controsoffitto, una telefonata nel cuore della notte e un testo poetico usato nel posto sbagliato? L’inizio di una storia. O di più storie, individuali e collettive, ma sempre con due protagonisti in comune: Caselli e l’Italia. Ci sono dieci date per dieci capitoli nel suo volume: dalle Brigate rosse alla mafia, dalla strage del cinema Statuto al “processo del secolo” contro Giulio Andreotti, passando per il Csm e la ‘ndrangheta al Nord, fino ad arrivare alle polemiche sulla Tav.

Ecco alcuni snodi fondamentali di cinquant’anni di storia italiana intrecciati con la biografia, non solo professionale, di un testimone unico nel panorama della magistratura italiana: un giudice accusato di essere alternativamente “toga rossa” o “fascista” con sorprendente disinvoltura, a seconda delle stagioni e – soprattutto – degli interessi colpiti da indagini e processi. O forse semplicemente perché schierato sempre da una parte: “quella della Costituzione – spiega – dove ogni cittadino è uguale davanti alla legge”.

Sono le tappe a partire dall’inizio della carriera dell’ex giudice istruttore a Torino, poi ex procuratore capo di Palermo negli anni della lotta alla mafia corleonese e in seguito del processo all’ex premier Giulio Andreotti. “Sono entrato in magistratura nel 1967, un’epoca in cui le carriere di molti giudici erano iniziate nel ventennio fascista. Erano anche gli anni in cui Fabrizio De André traduceva Il gorilla diGeorges Brassens, dove un giovane giudice con la toga non fa una gran bella fine”.

Il suo destino sembrò segnato quando nel 1967 vinse il concorso in magistratura per poi diventare giudice istruttore a Torino, poco prima degli Anni di piombo, che lo vedranno protagonista giudiziario contro le Brigate Rosse e Prima Linea. “Il periodo più buio della nostra storia l’abbiamo vissuto negli anni Settanta. Ed è qui a Torino che le cose sono cambiate”, rammenta. “Nella prima fase del terrorismo di sinistra ci fu sottovalutazione, ambiguità, contiguità da parte di fette consistenti del mondo intellettuale, politico e sindacale. Per la sinistra in Italia la vera svolta si avrà solo con l’omicidio di Guido Rossa”.

La lotta al terrorismo la condusse anche con Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Abbiamo lavorato per anni gomito a gomito – sottolinea –; all’inizio non fu facile, ma ne nacque un rapporto straordinario”. Uno dei momenti che lo segneranno ebbe come scenario il Consiglio Superiore della Magistratura di cui fu componente dal 1986 al 1990. Nell’88, infatti, Giovanni Falcone presentò la sua candidatura per la guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, lasciato vacante da Antonino Caponnetto. Il suo avversario era il più anziano Antonino Meli, che poi prevalse.

Caselli fu uno dei pochi a votare per Falcone. “Giovanni Falcone fu assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992, ma cominciò a morire il 19 gennaio 1988”, proprio quando la maggioranza del Csm gli preferì Meli con “motivazioni risibili e con l’apporto decisivo di qualche Giuda”, scriverà poi Paolo Borsellino. “Per Falcone fu un’umiliazione tremenda”.

Nel 1991 venne nominato magistrato di Cassazione e quindi presidente della Prima Sezione della Corte di Assise di Torino, ma la sua vita e la sua carriera cambiarono ancora il 15 gennaio del 1993. Quel giorno “penna bianca” – come lo avevano ribattezzato i poliziotti del Nocs che gli facevano da scorta – approdò alla guida della procura di Palermo, proprio mentre veniva catturato Totò Riina, il “capo dei capi”.

Gli anni di Caselli a Palermo furono segnati dall’arresto di potenti e sanguinari boss: da Leoluca Bagarella a Giovanni Brusca fino a Gaspare Spatuzza e da decine di personaggi di contorno, sconosciuti ai più ma molto pericolosi. A seguito dell’esperienza palermitana, giunse lo strascico clamoroso del processo a Giulio Andreotti, l’uomo più potente dei primi quarant’anni della Repubblica italiana. Il 27 marzo del 1993 venne accusato di associazione mafiosa: “Mi è stata comunicata – dichiarò alle agenzie – l’apertura di un’indagine nei miei confronti per attività mafiosa. La notizia mi amareggia profondamente ma non mi sorprende, perché avevo letto sui giornali assurde dichiarazioni di pentiti”.

Assurde? I due lunghi dibattimenti che seguirono (primo grado e appello) – oltre all’ascolto dei pentiti – diedero conto di un’infinità di indagini, testimonianze e approfondimenti, tanto che il processo nel complesso durerà oltre 10 anni. E sebbene il Divo Giulio fu infine assolto, lo fu solo limitatamente, cioè fino al 1980, essendo rimaste ombre e molte inquietudini sulla sua connivenza con Cosa nostra almeno fino ad allora, col supporto di prove che, nel frattempo, erano però cadute in prescrizione. Tanto che nel breve dispositivo di sole otto righe del secondo grado si parlò di “reato commesso” fino alla primavera di allora.

Caselli è stato anche il magistrato che costruì l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa contro Marcello Dell’Utri, poi condannato in via definitiva. “Andreotti e Dell’Utri hanno avuto rapporti cordiali, proficui, non sporadici con la criminalità mafiosa – commenta l’ex magistrato –. Questa realtà torbida, sconvolgente, è la base per qualunque riflessione riguardante i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria, fino al processo Trattativa Stato mafia”.

Finita l’esperienza palermitana, dal luglio 1999 al marzo del 2001 fu a capo del Dap, finché non venne nominato rappresentante italiano a Bruxelles di Eurojust contro la criminalità organizzata. Nel 2005 è a un passo dal guidare la Procura Nazionale Antimafia, obiettivo tuttavia non raggiunto: “Si è arrivati al punto di varare una legge contra personam, cancellando il mio diritto di concorrere alla carica, semplicemente col modificare i requisiti di età necessari per ricoprire l’incarico. Una legge (poi dichiarata incostituzionale), candidamente rivendicata dall’allora maggioranza di centrodestra, con l’esplicito intento di farmi ‘pagare’ il processo Andreotti”.

Tornato quindi nella sua Torino come procuratore capo, nel 2012 condusse l’inchiesta sulle manifestazioni del movimento No Tav, quando sui muri della città, dopo l’arresto di alcuni violenti, comparve la scritta “Caselli, farai la fine di Moro”, mentre altri, in rete, gli diedero del sia del “mafioso” che del “fascista”. Nel novembre del 2013, ha lasciato Magistratura Democratica, corrente dell’Anm che aveva contribuito a fondare. Nello stesso anno il M5S lo avrebbe voluto al Quirinale. A dicembre decide di lasciare la magistratura, dopo 46 anni. Ma fino ad oggi continua a far conoscere il suo pensiero attraverso libri e articoli pubblicati su varie testate.

Una vita di successi, senza rimpianti e ripensamenti? “A Palermo abbiamo fatto la resistenza contro lo strapotere mafioso. Sì, credo che in quegli anni, abbiamo contribuito a salvare la democrazia italiana. Per questo lo rifarei senza pensarci un attimo”.

E quanto all’oggi e alla riforma della giustizia? “Ora dilaga la zona grigia, il lato oscuro e fuori scena della mafia: è formata da fiancheggiatori più o meno consapevoli del profilo criminale dei loro interlocutori. Per realizzare i propri affari, infatti i mafiosi hanno sempre più bisogno di ‘esperti’, di cervelli reclutati grazie a generosi compensi: ragionieri, commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici, amministratori, uomini delle istituzioni (magistrati compresi, purtroppo). La cosiddetta borghesia mafiosa”.

Quella di cui ha parlato l’attuale procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, quando il 16 gennaio 2023 venne arrestato l’eterno latitante Matteo Messina Denaro, morto 8 mesi dopo per un tumore al colon. “È sempre più difficile distinguere il bianco dal nero. Proprio per questo è quantomai necessaria una magistratura il più possibile attrezzata professionalmente e specializzata, oltre che assolutamente indipendente. Quello che tanti non vogliono. Ed ecco la separazione delle carriere fra pm e giudici che mettono la magistratura – di fatto – alle dipendenze del potere esecutivo del governo. O i progetti di ridurre le intercettazioni. Tanto, ha sostenuto il ministro della Giustizia Nordio, i mafiosi non parlano al telefono”.

Che deve fare un magistrato per affrontare un sistema di potere esteso come quello mafioso? “Deve indirizzare le indagini (sussistendone i presupposti) in tutti gli ambienti, su tutti gli intrecci, nessuno escluso. E se risultano ‘relazioni esterne’ ha l’obbligo di evidenziarle, anche se non presentano profili di rilevanza penale. L’esistenza di tali rapporti e la dinamica delle ramificazioni dell’organizzazione criminale nel territorio sono elementi essenziali per riconoscere le caratteristiche proprie della mafia”.

“Ecco perché – conclude Caselli – non è accettabile la richiesta, spesso rivolta ai magistrati, di usare invece dei nomi, dei comodi ‘omissis’ per coprire personaggi eccellenti che abbiano avuto rapporti con la mafia rimasti – lo ribadisco – sotto la soglia della rilevanza penale. Sarebbe un errore, un pregiudizio per la corretta costruzione probatoria dei fatti: un silenzio che si trasformerebbe in omertà diffusa e non contribuirebbe sicuramente a bonificare il tessuto sociale”.

Fonte: MicroMega

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