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Diritti umani & sport

Danilo De Biasio * il . Diritti, Economia, Informazione, Politica, Società, Sport

I grandi eventi sportivi – Campionati europei e Olimpiadi, per citare i più vicini – possono fare bene ai diritti umani? Alla vigilia della Finale degli Europei e a poche settimane dalle Olimpiadi di Parigi mi è sembrato utile proporre qualche riflessione.

Nella migliore delle ipotesi la risposta è: sono indifferenti. Ma in molti casi producono danni.

Per noi di Fondazione Diritti Umani l’idea di tagliare 20.000 metri quadrati di foresta per fare posto ad una pista di bob per Milano-Cortina 2026 è un tassello della distruzione dell’ecosistema; e pensiamo che sia grave che le strutture imposte dal business sportivo provochino un aumento dei prezzi degli affitti per studenti e lavoratori (in un periodo di precarietà diffusa). Riguarda Parigi (fra pochissimo cominciano le Olimpiadi) ma anche Milano (in vista delle Olimpiadi invernali 2026).

L’accusato non è lo sport, ovviamente, ma il gigantismo di questi eventi. Lo hanno scritto anche gli economisti dell’Università di Oxford in questo studio del 2016: le Olimpiadi sono i progetti che sforano di più il budget iniziale.

C’è chi la pensa diversamente, che mette in risalto i lati positivi o la complessità di questi eventi.

Ecco due esempi: Guido Battaglia è il capo relazioni istituzionali del Centro per lo Sport e i Diritti Umani di Ginevra.

Ascolta ora il suo contributo.

Andrea Goldstein ha appena pubblicato per il Mulino “Quando l’importante è vincere” e mette in fila – con l’occhio da economista – una serie di dati e una visione globale che merita di essere letta. Grazie all’autore e alla casa editrice vi proponiamo le conclusioni del suo libro.

“Le Olimpiadi hanno un futuro? Le forze che ne mettono a repentaglio la sopravvivenza sono molteplici. I costi scoraggiano le candidature, anche se le nuove procedure di designazione sembrano produrre risultati incoraggianti nel contenere i primi e pertanto favorire le seconde. L’impatto ambientale delle infrastrutture necessarie, sportive ed extrasportive, solleva l’inquietudine della società civile e indebolisce fortemente il sostegno dell’opinione pubblica verso un avvenimento che dovrebbe rappresentare il trionfo della gioventù e dell’amicizia tra i popoli. La crescente politicizzazione dello sport, e quindi anche dei Giochi, mette a nudo una realtà che ha certo radici antiche, ma che era stato possibile mascherare. Non più, oramai, tanto palesi sono le sue manifestazioni: Olimpiadi in paesi non democratici, campionati organizzati da investitori privati al di fuori delle federazioni, finanche manifestazioni multi-sport alternative come i «Giochi dell’amicizia» di Iekaterinbourg, in Russia, in programma per settembre 2024. Bach, di fronte alle accuse di Putin di utilizzare il CIO e lo sport come strumenti di pressione politica, ha ripetuto il 21 novembre 2023 di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che gli eventi sportivi devono essere esclusivamente gestiti da organizzazioni sportive.  La strategia per ridorare l’immagine delle Olimpiadi non passa però dal ritorno a un Eden che probabilmente non è mai esistito. In primis il Movimento deve riconoscere che il futuro appartiene al mondo non-occidentale, il cosiddetto Global South, che rimane sottorappresentato nelle istanze superiori del CIO e delle federazioni internazionali: i celebri BRICS hanno 9 rappresentanti nel primo (rispetto ai 3 dei micro-Stati europei, con una popolazione complessiva minore di quella di un isolato di Pechino o Mumbai) e appena 3 presidenti di federazioni. Più in generale c’è un problema di governance e legittimità, di conflitti d’interesse, di lampante disparità nel trattamento dell’invasione dello spazio sportivo da parte della politica. In parte questa situazione riflette il peso degli interessi economici, che siano privati o pubblici. Multinazionali e media che investono ingenti risorse nelle Olimpiadi sono pronti a dimenticare la retorica contemporanea della responsabilità sociale dell’impresa allorché un’applicazione coerente di tale principio obbligherebbe a cambi nelle condizioni delle competizioni sportive.  Non bisogna però neppure esagerare col revisionismo. Certamente ci sono state le due Olimpiadi invernali di Pechino e quelle di Sochi, cui si può aggiungere magari la Coppa del mondo di calcio in Qatar, ma Londra-Rio-Tokyo-Parigi-LA-Brisbane nel periodo 2012-2032 rappresenta una sequenza ventennale di Giochi in democrazia. L’attenzione sincera e sempre crescente verso inclusione e diversità, nonché il contrasto più efficace alle derive della pratica sportiva, come gli abusi da parte di chi ha potere o il ricorso illecito alla medicina per migliorare le performance, testimoniano che sussistono volontà e capacità di preservare lo spirito olimpico. Che probabilmente non è mai stato espresso compiutamente dallo slogan decoubertiniano, ma che ora può essere utilizzato senza ipocrisie – l’importante è vincere (anche se partecipare sarebbe già un risultato eccezionale per la stragrande maggioranza degli umani!)”.

Sport & diritti umani: non tutto si riassume nel business.

Gli esempi più virtuosi – Jesse Owens che ridicolizza con le sue medaglie le teorie suprematiste di Hitler o il pugno alzato, simbolo del Black Panther, degli atleti afro-americani Tommie Smith e John Carlos a Mexico 68 – hanno avuto effetto visto che ne parliamo ancora oggi. E ce ne sarebbe bisogno ancora oggi: un’atleta iraniana che si spoglia del velo, un palestinese e israeliano o un russo e un ucraino che si abbracciano sul podio dicendo “basta guerra”…

Slogan come “lo sport unisce” sono spesso zuccherose operazioni di marketing alimentate da chi ci guadagna dai mega-eventi.

La più smaccata di queste operazioni riguarda l’Arabia Saudita, un buco nero per i diritti umani, che sta cercando di comprare a suon di miliardi una credibilità che non merita. Come dimostrano le prime inchieste giornalistiche sui Mondiali di calcio del 2034.

E non occorre proiettarsi nel futuro, basta vedere cosa accade ora: Manahel al-Otaibi, giovane donna, insegnava fitness online, con indumenti sgraditi alla petrol-dittatura saudita, che ancora meno sopportava i suoi appelli all’uguaglianza di genere. Manahel al-Otaibi è stata condannata a 11 anni di prigione e di lei non si sa più nulla da mesi.

La sua vicenda è fortemente simbolica, perché contempla sport, benessere fisico per tutti/e, libertà. In una parola i diritti umani. Negati ancora una volta.

* Direttore Fondazione Diritti Umani

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